"Facciamo girare le loro foto...". Ora gli antifà schedano i ragazzi di destra

I compagni schedano i militanti di Azione studentesca: "Tutti devono riconoscerli"

"Facciamo girare le loro foto...". Ora gli antifà schedano i ragazzi di destra

"Vogliamo fare un applauso a quel compagno che si è buttato in mezzo a quei bastardi che stavano prendendo a pedate un altro ragazzo. Vogliamo anche rivendicare di aver fatto girare la foto di quegli stronzi. Quella foto gira non per servire una strategia repressiva ma perché la faccia di quei pezzi di merda deve essere conosciuta da tutti. Si devono riconoscere quando vanno a prendere il caffè. Quando vanno dall'ortolano. Quando vanno a fare la spesa. Quando vanno sulla tramvia. Perché quel peso se lo devono sentire addosso". A parlare è un "compagno" del centro popolare autogestito Firenze sud durante il corteo antifascista di ieri. Quello, dove per intenderci, i manifestanti hanno urlato minacce contro il presidente del Consiglio (Meloni fascista, sei la prima della lista) e slogan inneggianti a Josip Broz Tito e alle foibe. Gli stronzi in questione sono i ragazzi di Azione studentesca, coinvolti in una rissa di fronte al liceo Michelangiolo di Firenze il 18 febbraio scorso.

Su queste pagine, abbiamo già avuto modo di spiegare come la storia raccontata dai "giornaloni" di sinistra sia per lo meno parziale. Quello che colpisce, ora, è l'atteggiamento degli antifascisti fiorentini, le vittime di questa storia.

Negli ultimi mesi non solo si sono segnalati per violenza. Ora stanno facendo anche girare le foto dei ragazzi di destra affinché vengano riconosciuti. "Non per una strategia repressiva", sia chiaro. Non perché qualcuno li possa riconoscere e magari menare. Ma solo perché affinché possano portarsi addosso il peso di aver pestato altri ragazzi.

Ora: non vogliamo scomodare l'antico adagio latino "excusatio non petita, accusatio manifesta" (scusa non richiesta, accusa manifesta"). Ci basta solo ricordare una storia.

Sono i primi mesi del 1975 e un ragazzo di Milano, che a vederlo sembra un capellone, scrive un tema in cui condanna duramente le Brigate rosse. Il tema viene letto in classe dal professore, a voce alta. È l'inizio del processo. Il tema viene sottratto e affisso in corridoio. Tutti devono sapere cosa pensa quel capellone. Tutti, vedendolo, devono fargli sentire addosso il peso delle sue parole. Passano i giorni. Questo ragazzo dal viso pulito continua a fare quello che ha sempre fatto. Studia e fa politica.

Il 13 marzo, però, accade qualcosa di diverso. Il capellone parcheggia il motorino in una via non distante da casa. Comincia ad assaporare il rientro. La mamma, la famiglia pronta ad abbracciarlo e, forse, pronta a tirare un sospiro di sollievo vedendolo tornare a casa ancora una volta. Ma questi pensieri vengono interrotti.

Mentre sta camminando, infatti, quel ragazzo viene colpito con una violenza inenarrabile da diversi colpi di chiave inglese. Uno. Due. Tre. Contarli è un esercizio inutile. Ancora. Il ragazzo prova a difendersi ma non c'è più nulla da fare. Attorno a lui c'è solo un lago di sangue. I compagni di Avanguardia operaia vogliono portare a termine il compito. Qualcuno urla di piantarla. Che se continuano così lo ammazzano. Ma è troppo tardi.

I capelli, una volta morbidi, di quel ragazzo sono ora imbrattati di sangue. Quel ragazzo non si sveglierà più. Passerà 47 giorni in coma prima di morire. Quel ragazzo era Sergio Ramelli. Quel ragazzo doveva portare addosso il peso di aver scritto quelle parole.

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