Nelle foto di Nino Migliori l'arte vista a lume di luna

Le opere di Niccolò dell'Arca, Sanmartino o Canova spiccano nella magia del chiaroscuro

Vittorio Sgarbi

Conosco Nino Migliori da quasi cinquant'anni, dal tempo in cui entrai alla Università di Bologna come assistente di Italo Zannier, il grande studioso di fotografia. Migliori era uguale, leggero e scherzoso. Lavorava negli ambienti dell'Istituto di Storia dell'Arte. Il tempo non lo ha cambiato, ma lo ha reso autorevole, lo ha distanziato in uno spazio incontaminato. Puro era sempre stato, ma in contatto con la realtà, che oggi evita, ovvero le vola sopra.

All'epoca aveva meno di 50 anni. Non ho mai incontrato un fotografo più sereno, anche quando i tempi erano drammatici. Ci aspettava, proprio a Bologna, il 1977, con le occupazioni dell'Autonomia studentesca, fase evolutiva del '68, spartiacque non solo per la mia generazione, ma anche per la storia d'Italia. Mia madre, benché sua coetanea non ebbe l'occasione di conoscerlo, ma sarebbero stati amici come Migliori lo fu di un altro personaggio, e grande persona, Dino Gavina. Gavina era umile e brusco, ovvero intransigente; e criticava tutti per il pressappochismo e il dilettantismo tanto diffusi nel velleitario mondo universitario bolognese. Ma amava e ammirava Migliori, tanto semplice da evitare per istinto il superfluo. È proprio dei grandi fotografi, Weston, Weegee, Strand, Cavalli. Molti altri, anche noti, cincischiano, si perdono in dettagli. Migliori punta all'essenziale, ma non necessariamente alla essenza, perché crede che la fotografia abbia a che fare con il fenomeno e con i fenomeni che talvolta si manifestano in apparizioni, che non hanno niente a che fare con la realtà visiva che pure ispira e muove l'azione del fotografo.

È probabile che in questo abbia contato per lui proprio l'ispirazione di Man Ray il quale, pochi anni prima del nostro incontro, era venuto a Bologna chiamato da Gavina. Aveva certamente determinato effetti imprevisti. Come le Rayografie e le solarizzazioni, una pratica di sviluppo dei negativi i quali, drasticamente sovraesposti, vanno incontro a un processo di inversione tonale che dà alla fotografia un aspetto di rilievo sbalzato. Ora, molte e acute cose sono dette nel catalogo della mostra «Lumen - A lume di candela» da mia sorella Elisabetta, da Italo Zannier e da Arturo Carlo Quintavalle il quale, nelle recenti sperimentazioni di Migliori, definisce il suo processo fotografico (e creativo) «scrivere con la candela». Nessun dubbio, avendolo visto all'opera parimenti con opere d'arte, dai rilievi antelamici del Battistero di Parma ai dolenti del Compianto di Niccolò dell'Arca, alle metope del Duomo di Modena, a Ilaria del Carretto, al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, alla Paolina Borghese di Canova, ai pianeti e allo zodiaco del tempio Malatestiano, con effetti notturni rischiarati dal lume di candela.

E verrebbe naturale rovesciare il principio della solarizzazione di Man Ray in quello della «lunarizzazione» di Migliori. Al lume di luna, proprio della poesia romantica inglese e degli idilli leopardiani, egli trova un volto nuovo per gli oggetti animati (nelle opere d'arte) e per le persone, impietrite nelle immagini fotografiche, che egli sottopone al suo personalissimo trattamento. È un processo di rovesciamento del mondo, anche di quello del neorealismo di Gente dell'Emilia, Gente del Nord, Gente del Sud e Gente del Delta. Un punto di vista che oggettivizza, piuttosto che ideologizzare, la realtà. Eccolo alle prese con la realtà dell'arte, la cui vita e la cui ansia superano talvolta la vita reale. È il caso del suo misurarsi con testimoni bolognesi che, nell'abisso del tempo, si fanno suoi coetanei. Lo avvertiamo anche nella fotografia a lume di candela fatta di recente al quattrocentesco busto di San Domenico che Niccolò dell'Arca realizzò per l'omonimo convento bolognese, da cui è giunto poi nelle mie mani, attraverso una serie di avventurose vicende, ormai quasi quarant'anni fa.

Non è la prima volta che ci si trova davanti a fotografie d'autore di opere d'arte in bianco e nero e a illuminazione limitata. Valga per tutti il caso di Mimmo Jodice con i resti pompeiani. Qui, però, il discorso è diverso, e non solo perché la luce, banalmente, risulta assai più ridotta. Migliori non si limita a registrare, modifica volutamente i termini ordinari della percezione, assecondando al meglio la sensibilità ottica del suo apparecchio per innestare non solo un'interpretazione lirica, ma anche una riflessione filosofica su ciò che viene reso visibile, ancora una volta, oltre il limite delle nostre capacità naturali. È la negazione della dimensione museale, dove ogni oggetto è illuminato chiaramente, sterilizzato, congelato, nell'illusione di fornirci il resoconto preciso della storia. Metaforicamente, la fotografia di Migliori ci invita a essere scettici nei confronti di prospettive così ottimistiche: la storia, come la realtà, è un'illusione, è solo ciò che riusciamo a considerare tale sulla base non del tutto da valutare, ma solo delle sue testimonianze superstiti. Il grande buio del perduto, del dimenticato, prevale sempre sulla poca luce del conosciuto. Così capita anche al busto del San Domenico che Migliori mi propone in una chiave fino a ora ignota, perdendo la familiarità che con esso ho stabilito per risultarmi improvvisamente distante, come se il buio che lo avvolge e da cui con fatica prova a sottrarsi fosse in procinto di risucchiarlo da un momento all'altro nell'abisso dell'oblio.

In fondo potrei supporre di far parte integrante di quella luce, visto che ho contribuito così tanto al recupero dell'opera nella vita, la mia come quella di tutti coloro che

oggi possono goderne. Chissà che fine avrebbe potuto fare se non l'avessi mai incrociata, forse si sarebbe davvero persa nel buco nero della non-storia da cui nulla più riemerge. Un pensiero che mi gratifica, commuovendomi.

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