New York, ferita dalla crisi, guarda al futuro

Sparisce il simbolo Lehman, il sindaco Bloomberg riduce le spese ma la città è più sgomenta che disperata

C’è un simbolo che più di tante parole dà l’impressione di come oggi New York stia vivendo la grande crisi delle sue star finanziarie. A due passi da Times square, la vecchia sede di Lehman Brothers. Le sue insegne luminose nel giro di poche ore hanno cambiato faccia. Con la stessa rapidità con la quale più di ventimila persone sono state licenziate ad nutum, anzi via e-mail, anche la faccia del palazzo ha assunto una veste nuova. Al posto della blasonata scritta Lehman Brothers con il suo sfondo violaceo, è comparso il rassicurante celeste di Barclays. Un colpo inimmaginabile solo poche settimane fa. Insieme al lavoro di un melting pot fatto di razze diverse, ma educazioni simili, è scomparso un simbolo di una New York lontana, fisicamente da Wall Street, ma colonna portante dell’America finanziaria.
È scomparsa Lehman con le sue insegne, ma al suo posto non c’è un cratere. «L’11 settembre - dice uno dei pochi dipendenti della banca che non si trincera dietro al no comment - ha creato nella Città un vuoto, uno spazio fisico per ricordare che qualcuno ci aveva attaccato. Oggi è diverso non sappiamo chi è il nemico, non abbiamo una soluzione». Barclays ha sostituito Lehman, Jp Morgan ha catturato Bear Stearns, Bank of America ha salvato Merrill Lynch. L’umore che si percepisce nella City è che un mondo è finito. Sì certo. Ma una generazione di trentenni, che non ha passato l’ultimo botto del 1987, più che impaurita, non riesce a capire cosa stia avvenendo. È una generazione che ha studiato e si è formata nei migliori college a stelle e strisce. La finanza per questa generazione di «americantrash», come snobisticamente vengono definiti, non ha crisi: è il sangue con il quale si alimenta il corpaccione dell’economia mondiale e del risparmio domestico. Morta un’insegna si sostituisce velocemente con un’altra.
«La crisi finanziaria ancora non l’ho sentita - dice Giuseppe D., proprietario di una delle sartorie più eleganti di New York, in upper West side -. L’impressione è che i veri ricchi non siano stati minimamente toccati. Rispetto al passato non vi è neanche quell’effetto psicologico, per cui si compra di meno, non tanto perché mancano i quattrini, ma perché è giusto».
Eppure a leggere le carte e i numeri qualcosa si deve essere rotto. Il sindaco Bloomberg ha annunciato tagli importanti alla spesa pubblica della Grande mela. Verranno toccati i bilanci persino di Vigili del fuoco e poliziotti, oltre a quelli dell’istruzione. Un massiccio piano di riduzione della spesa preventivo. Bloomberg sa che nei prossimi mesi le entrate fiscali languiranno, nei limiti di New York ovviamente. Ha pensato pure di ritoccare la tassa di trasferimento sugli immobili. Nonostante tutto, ulteriore contraddizione di questa crisi che c’è ma non si vede, il costo di un appartamento in un «good address» di Manhattan non è crollato come nel resto degli States.
Insomma New York vive la crisi a modo suo. È come sospesa aspettando gli eventi. Eppure non si ferma. Le banche cambiano nome, i dipendenti posto di lavoro, il sindaco corre ai ripari. Rispetto a ciò che le nostre cronache ci raccontano però non si ha la sensazione di vivere sull’orlo di un precipizio.
La città appare più sgomenta che disperata. È difficile pensare alla Wall street di oggi, rimpicciolita nei suoi affari, come alla Wall street del ’29.

Quelle immagini in bianco e nero che raccontano la disperazione di un’epoca che si è chiusa solo grazie alla guerra, non rappresentano minimamente l’America di oggi. Forse ha ragione Ben Bernanke, il numero uno della banca centrale americana, che ai senatori ha sarcasticamente detto: «Wall street non esiste, è un’astrazione».

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