«Niente euro, siamo (e resteremo) inglesi»

L’economia è in recessione, le banche ogni giorno svelano un pasticcio e i governi di tutto il mondo si muovono con il sapore dell’emergenza. Che crisi è questa? «Poniamo le cose nella giusta prospettiva», dice in questa intervista al Giornale Luigi Abete, presidente di Bnl. «A livello mondiale è in atto una reazione che si manifesta dopo un lungo periodo di espansione in parte drogata dalle politiche monetarie e dalla deregolamentazione americana. La crisi inizialmente finanziaria si è poi propagata a livello di economia reale. È una crisi straordinaria. Nel senso della sua concentrazione temporale: è molto veloce, repentina. E nella sua capacità di contagio indotta dalle interconessioni delle economia mondiali. Ma non può essere scambiata per l’apocalisse. È, più banalmente, la prima crisi della globalizzazione, che però fino a ieri aveva portato a uno straordinario ciclo di espansione»
Insomma secondo lei è tutta colpa degli Stati Uniti e delle loro politiche economiche e monetarie.
«Be’ non si può certo negare che ci abbiano messo del loro. È chiaro però che gli altri sistemi economici mondiali non hanno messo in campo e in tempo politiche di freno al modello che si stava costruendo negli Usa. Ma lo hanno assecondato. Bisogna inoltre dire che il reddito americano oggi ha un peso nell’economia globale molto inferiore a quello che aveva negli anni Trenta. Ogni paragone con quell’epoca è dunque fuori luogo: il Pil americano negli anni precedenti la grande depressione era il 42% di quello globale, oggi il suo peso relativo è di circa la metà».
Rispetto alla crisi del ’29, dunque, l’unica differenza sarebbe il ruolo meno egemonico dell’economia americana?
«Non solo. La grande depressione nacque da una crisi nata su ragioni prettamente industriali e che poi hanno inevitabilmente contagiato anche la finanza, Wall Street. Oggi il fenomeno è esattamente opposto. Basti pensare che il primo anno di crisi negli anni Trenta portò a una riduzione del Pil americano del 8%. Oggi anche le più pessimistiche previsioni parlano di un calo intorno al 2%. Inoltre ci troviamo, per fortuna, dinnanzi a un mondo più largo, più grande. Ci sono nuovi attori economici, non solo la Cina, che avranno un effetto di ammortizzatore per la recessione. Tutto ciò, come detto, rende l’attuale crisi eccezionale nel suo dispiegamento in termini di tempi e dimensioni, ma nel contempo la rende meno pericolosa».
Si considera un’ottimista?
«L’ottimismo è una categoria della volontà, e non rappresenta il mio approccio. Direi piuttosto che sono fiducioso. Ritengo che alla fine la recessione non sarà troppo lunga e che alla fine ne usciremo migliorati. Almeno sotto tre profili: maggiore trasparenza del sistema, migliore competitività delle imprese e infine equilibrio più spinto. Avremo un’economia più aperta»
Il secondo grande imputato è rappresentato dalle banche. Hanno usato con disinvoltura il debito e i loro leader oggi non sembrano pagare un grande prezzo.
«Le banche commerciali hanno fatto bene il loro mestiere e oggi stanno reggendo il sistema. In particolare quelle latine e ancora più in particolare quelle italiane. Il paradosso è che si sono astenute ieri dagli eccessi, ma rischiano di pagare oggi il crollo di un sistema creditizio che non hanno contribuito a gonfiare».
In mezza Europa però è arrivato il sostegno pubblico e nei casi inglese e tedesco financo le nazionalizzazioni. Non certo un buon biglietto da visita.
«I casi di cui parla sono avvenuti in quei Paesi in cui maggiormente vi è stata l’influenza della finanza americana, oppure dove lo stato ha liberalizzato di meno. Da noi si è assistito a un mix corretto di privatizzazioni, liberalizzazioni e controlli che, come si è visto, ci sta preservando».
Si può dire altrettanto per la struttura industriale italiana?
«Semplificando si può dire che ci sono tre categorie di imprese con problemi diversi. Le medie avranno bilanci meno positivi, ma sono pronte a cogliere ogni minimo segno di ripresa. Le medio-piccole soffriranno di più, ma sono in grado di resistere. Le microimprese, non collegate in nessun modo alle prime due categorie, corrono molti rischi. Per loro non ci sono scelte: dovranno rafforzare il patrimonio».
Sono duemila anni che si chiede loro di patrimonializzarsi. dove troviamo la bacchetta magica?
«Il governo, oltre ai possibili aiuti al mercato dei beni durevoli, dovrebbe incoraggiare fiscalmente la patrimonializzazione delle piccole imprese. Ad esempio favorendone aumenti di capitale in cash. Si dovrebbero trattare con tassazioni simili a quelle delle rendite finanziarie (oggi al 12,5 % ndr). In questo contesto le banche avrebbero anche una ragione di più per affiancarle nel loro processo di crescita».
Implicitamente sta dicendo che oggi una certa sofferenza per una rarefazione del credito comunque è in atto?
«Dico che a livello macro il credito alle imprese cresce, ma naturalmente le banche, proprio perché imprese, stanno operando la segmentazione della loro clientela, concentrando le risorse sulle imprese più promettenti e con maggiori chance di sviluppo».
E il governo in questo contesto come si è mosso?
«Ho l’impressione che stia reagendo meglio di come appaia leggendo le singole dichiarazioni. Nei fatti ha un comportamento coerente con l’ineludibile vincolo di bilancio imposto dal nostro enorme debito pubblico, come ricorda Tremonti, e con il possibile intervento per mitigare la recessione. Ho ancora lo spirito che ci ha portato nella moneta unica e non posso dunque che apprezzare questo rigore che si dimostra nei fatti più che negli annunci.

Detto questo dovrebbe essere più spedito nel risolvere la questione sociale per le fasce dei lavoratori più deboli. E spostare l’attenzione dai grandi progetti infrastrutturali a quelli di dimensioni minori e alle manutenzioni».

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