«Noi che da 45 anni aspettavamo Godot»

Quando Carlo Repetti e Marco Sciaccaluga decisero di mettere in cartellone «Aspettando Godot» di Beckett non pensavano, forse, di suscitare tanto interesse in quelle generazioni genovesi degli anni Cinquanta e Sessanta.
Perché quei genovesi ricordano che 45 anni fa, proprio al Duse, venne rappresentato il testo con la regia di Carlo Quartucci e l’interpretazione di Rino Sodano, Leo De Berardinis, Maria Grazia Grassini e Claudio Remondi e fu un successo, anche se le critiche non mancarono, proprio su un testo allora molto discusso e significativo di un teatro alternativo, definito dell’assurdo, che mai era arrivato a Genova. Già: teatro dell’assurdo. E qui val la pena riandare anche a quella «Borsa d’Arlecchino» che per prima portò in città quel tipo di teatro, con i vari Beckett, Jonesco, Adamov, Genet, De Ghelderode. Erano anni straordinari per entusiasmo e innovazione, anche se le istituzioni ufficiali se ne stavano zitte e un po’ preoccupate.
Era il 1957: nella sede ufficiale del teatro, il «Duse», si provava la «Gibigianna» di Carlo Bertolazzi, regia di Enrico Maria Salerno, ben ventinove attori in scena. Nello stesso tempo cinque giovani tentavano un esperimento delicatissimo, cioè di mettere insieme una serie di atti unici in uno «spazio» ristrettissimo, una sala piccola, lunga, un po’ retro’, seminterrata sotto l’austero Palazzo della Borsa. Si scendeva una scaletta ed ecco la sala, in fondo una pedana, due quinte, niente altro.
Il proprietario del caffè, appunto il signor Borsa «mite e dubbioso» (come lo hanno definito Daniela Ardini e Cesare Viazzi in una pubblicazione-ricordo «La Borsa d’Arlecchino e Aldo Trionfo», editore De Ferrari).
I cinque giovani un po’ pazzerelloni sii chiamavano Mirya Selva, Paola Giubilei, Duilio Provvedi e cui si aggiunsero Vincenzo Ferro, il regista Enrico Romero e anche Lele Luzzati che disegnò il «logo» della Borsa (un «Arlecchino»). Il nome alla saletta lo diede un indimenticabile critico teatrale di allora, Enrico Bassano (scriveva su «Il Corriere Mercantile»). Il via avvenne il 30 ottobre del 1957, poi tre anni di grandi soddisfazioni e di grandissimi sacrifici, con Genova che divenne la capitale di questo «teatro d’avanguardia» e se ne parlò in tutta Italia. Accanto ai fondatori si unirono altri interpreti: Fernanda Pasqui, Ines Biribò, Gino Lavagetto (divenuto poi marito di Miranda Martino), Giorgio De Virgiliis, Aldo Rossi. Arrivò sulla piccola pedana «La lezione» di Jonesco e fu la consacrazione di una fra le più belle attrici del momento, Tiziana Casetti che fece innamorare di sé attori e critici (poi il privilegiato fu Mauro Benedetti). Arrivò poi Aldo Trionfo e fu il momento più alto di questo «caffè-cabaret dell’assurdo» e della comicità. Trionfo era nato a Genova nel ’21 da una facoltosa famiglia di origine ebrea, aveva fatto esperienze importanti all’estero, ma soprattutto a Parigi dove scoprì gli autori d’avanguardia e li portò alla «Borsa». Ebbe come collaboratori molti nomi importanti: dal professor Umberto Albini, agli scenografi Giancarlo Bignardi, Roberto Scodnik, Giorgio Panni, ovviamente Lele Luzzati e i musicisti Oscar Prudente e Ivano Fossati.
Con lui e con i testi dei vari Jonesco, Beckett, De Ghelderode Genova e la sua «Borsa» scrissero un decisivo capitolo della storia del teatro italiano. E arrivò anche Paolo Poli che debuttò proprio con un testo di Michel Del Ghelderode «All’osteria di Carolina» scritto nel ’30, per l’Italia una novità assoluta. Fu una provocazione infinita: Vincenzo Ferro vestito da donna nella parte di una «madre», mentre Paolo Poli era il «padre», una interpretazione che porterà l’attore a diventare uno dei grandi protagonisti della scena italiana.
Purtroppo la «Borsa» al terzo anno si ferma, i «teatri ufficiali» non la sopportano, i finanziamenti mancano, cala il sipario nel giugno del 1960. Buio totale, definitivo. La bella avventura di cinque giovani un po’ stralunati, ma tanto coraggiosi finisce. E finisce la storia di un regista (grande) che sapeva leggere l’Assurdo e la Poesia.
Oggi, rivedere i manifesti di «Aspettando Godot» a molti di quella generazione è saltato addosso un certo magone, un po’ di malinconia per quello scantinato che tante speranze aveva suscitato.


La «Borsa», ha scritto Vico Faggi, «era un vero schiaffo alla pigrizia dei nostri operatori teatrali... uno scrollone ai pigri e agli indifferenti... un richiamo severo agli incolti...».
Anche quei giovani, forse, aspettavano Godot... Che non è mai arrivato. Come da copione.

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