Oltre Mogadiscio il nuovo regno dei talebani

L’inferno si è riaperto. Ed è peggiore di 16 anni fa quando George Bush padre tentò di salvare la Somalia con il primo intervento militar-umanitario. Allora l’inferno ribolliva sotto le fiammate di fame, carestia e signori della guerra. Oggi la nuova “catastrofe perfetta” è accelerata anche della minaccia fondamentalista e dal brusco rincaro delle derrate alimentari. La prima trasforma in azzardo letale la presenza occidentale, la seconda rende proibitivi i costi di un intervento umanitario. In questo scenario il tentativo di rafforzare il governo di transizione dopo la cacciata, nel dicembre 2006, delle Corti islamiche si sta tramutando in un disastro. L’intervento dell’esercito etiope e l’appoggio statunitense rappresentano per molti somali una nuova occupazione ed hanno finito con il ridare fiato alle milizie integraliste degli Shebab, un nome che in arabo significa ragazzi. A Mogadiscio il governo controlla a malapena il palazzo presidenziale e pochi altri edifici. Fuori da quel perimetro la Somalia è il nuovo regno nero dei talebani. I cinema riaperti dopo la fuga delle Corti islamiche sono stati nuovamente costretti a chiudere i battenti. Gli alcolici sono ridiventati merce clandestina. I giornalisti sono inseguiti da minacciosi avvertimenti che li invitano a definire fantoccio il governo e martiri i caduti integralisti. In questo panorama il rapimento dei nostri due connazionali è il classico incidente annunciato. A febbraio un ordigno ha ucciso tre dipendenti di Medici senza frontiere spingendo l’organizzazione ad abbandonare il paese. Ad aprile Murray Watson un volontario inglese è scomparso assieme ad un collega kenyota dopo esser stato rapito. Una settimana fa gli zelanti Shebab hanno trucidato due volontari somali promettendo la stessa sorte a tutti gli stranieri.
Il governo e i suoi alleati non se la passano meglio. Gli etiopi minacciati da imboscate, ordigni comandati a distanza e cecchini non escono più dalle basi. Le truppe dell’Unione Africana chiamate a sostituirli non si sono presentate all’appello. In compenso i militari governativi senza stipendio da otto mesi e gli altrettanto mal pagati signori della guerra loro alleati sopravvivono razziando i civili. I tre milioni di abitanti di Mogadiscio possono solo scegliere se morire di fame o di piombo. I due ospedali della capitale hanno registrato quasi 1200 vittime di arma da fuoco dall’inizio dell’anno, un terzo dei quali donne e bambini. Molti sono caduti sotto i colpi dell’artiglieria etiope pronta a martellare i quartieri abitati per stanare gli Shebab. L’eliminazione a colpi di missile del comandante militare di Al Qaida, Aden Hashi Ayro, e gli altri omicidi mirati messi a segno da Washington non bastano a contenere la nuova offensiva integralista che controlla ormai buona parte della capitale e almeno otto città. La crescente frammentazione e la mancanza di collegamenti amplificano il flagello della carestia. Le stime dell’Onu parlano di due milioni e mezzo di persone a rischio fame e definiscono la Somalia come la peggior crisi umanitaria. La congiuntura climatica non aiuta. La siccità ha prosciugato i campi, devastato le coltivazioni, decimato gli allevamenti.

Ed ora la carestia è pronta a falcidiare gli umani. «In alcune zone i morti per stenti sono già centinaia, ma lasciate passare un paio di settimane - ammoniva Christian Balslev-Olesen capo delle operazioni dell’Unicef in Somalia - e sarà catastrofe vera».

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