Paranoico o eroe Storia di Ungern, barone anti Urss

F ra i personaggi del secolo scorso entrati nella leggenda un posto d’onore è occupato dal barone Roman von Ungern-Sternberg. A novant’anni dalla sua esecuzione decisa dai bolscevichi, il nobile baltico è oggetto di un culto sotterraneo, in crescita nella galassia della nuova destra. C’è chi vede in Ungern-Sternberg una forza della natura investita della sacra missione di combattere il materialismo comunista. Però non manca chi lo considera un reazionario con turbe mistiche. Nella seconda categoria può rientrare Vladimir Pozner, scrittore russo naturalizzato francese. Era un giovane intellettuale di sinistra nei primi anni ’30, quando il collega Blaise Cendras gli commissionò un libro per la sua collana di biografie. Pozner scelse Ungern Khan. Fu così che nacque Il Barone sanguinario (Adelphi, pagg. 320, euro 22). Pozner fece ricorso soprattutto all’immaginazione per scrivere un bel romanzo, dove Ungern è un paranoico mosso dall’odio verso gli ebrei. Pozner ammette che si trattava di «un uomo di grande levatura», però lo presenta come un «relitto medioevale smarrito in una Siberia scossa dalla guerra civile», col vizio di bruciare vivi prodi sovietici. Il limite dell’opera è nel manicheismo, nel far passare i comunisti come buoni e il barone, con contorno di reazionari bianchi, come il male assoluto.
Chi vuole farsi un’idea completa deve leggere Bestie, uomini e dei di Ferdinand Ossendowski, che frequentò Ungern, e i saggi di Imperi delle steppe (Centro Studi Vox Popoli).

Qui Pio Filippani Ronconi chiarisce perché Ungern venne benedetto dal «Budda vivente» della Mongolia e, ormai braccato, cercò rifugio presso il Dalai Lama. Non era una personale ossessione il far rivivere l’impero di Genghis Khan: la conferenza lamaista del 1919 aveva deciso di instaurare in Asia una teocrazia buddista per fronteggiare il caos d’Occidente.

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