La parola d’ordine è delocalizzare E chiudono interi settori produttivi

Ecco le fabbriche che si trasferiscono all’estero

La parola d’ordine è  delocalizzare E chiudono interi settori produttivi

Paolo Stefanato

da Milano

La notizia più recente viene da Brugherio, sede storica della Candy elettrodomestici: il gruppo ha deciso di chiudere lo stabilimento bergamasco di Cortenuova, dove lavorano 380 persone, 185 delle quali già dichiarate in esubero all’inizio dell’anno. La decisione era nell’aria: lo stabilimento produce frigoriferi e congelatori, e la Candy ha già spostato il suo «polo» del freddo nella Repubblica Ceca, a Podborany, in uno stabilimento raddoppiato in settembre, 46mila metri quadrati di superficie, 800 occupati. I 380 di Cortenuova sono dunque le ultime vittime della delocalizzazione. È una rivoluzione strisciante: le imprese italiane spostano le produzioni all’estero, in base a opportunità economiche ineccepibili, e parallelamente il tessuto industriale italiano s’impoverisce.
Accade in molti settori, e quello degli elettrodomestici è uno dei più colpiti: secondo una ricerca di Prometeia, qui il margine che resta dopo aver spesato materiali e componenti, servizi, manodopera, ammortamenti e tasse, è sceso tra il ’99 e il 2003 dal 2,1% all’1,6%. E in questo settore il comparto più in crisi è quello del freddo: perché frigoriferi e congelatori sono i prodotti più poveri - una scatola metallica e un compressore (quest’ultimo prodotto da terzi) - esposti alla concorrenza turca e coreana e poco convenienti da esportare: trasportare un frigo equivale, pressapoco, a trasportare aria. La crisi del frigorifero si avverte anche in un’altra multinazionale italiana, Indesit Company, di cui è presidente Vittorio Merloni. La sua espansione all’estero ha finito per incrinare anche l’intoccabilità delle fabbriche del Marchigiano: la produzione di frigoriferi di Melano sarà riconvertita nei più redditizi piani di cottura, e da circa sei mesi è in corso la trattativa sindacale con i 580 dipendenti, che comunque non perderanno il posto.
Più delicata la situazione di Antonio Merloni, il fratello più anziano della famiglia, che ha fatto fortuna producendo elettrodomestici per terzi e che ora, cambiati i tempi, si trova in difficoltà: ha annunciato 1.200 tagli su 3.500 dipendenti. Anche in questo caso, le uniche vere prospettive stanno all’Est: sia in termini di mercato, dove il «terzo» fratello è presente anche con marchi propri, sia in termini produttivi, dove è avviato il progetto per una fabbrica in Ucraina.
Vittorio Merloni ha sempre insistito sulla differenza tra «delocalizzazione» e «sviluppo». «Noi - ha ripetuto spesso - apriamo fabbriche all’estero per essere più vicini ai mercati di sbocco, ma non chiudiamo stabilimenti in Italia». «Per ora», commentano i maligni. Obiettivo del gruppo è di riequilibrare le quote di produzione e di vendita tra Europa Occidentale e Orientale: entro il 2009 Indesit punta a fatturare il 40% a Est (dal 34% attuale) a fronte di una produzione in loco del 45% (oggi 28%). I ricavi del gruppo oggi sono di circa 3 miliardi.
Il prefisso «de», che indica una sottrazione, spiega chiaramente il vero significato di «delocalizzazione»: chiudere per riaprire altrove. In una logica multinazionale è un’operazione che rischia di essere un semplice esercizio di geografia economica. L’americana Whirlpool, presente in tutto il mondo e fortemente radicata a Varese grazie agli stabilimenti ex Ignis, alcuni mesi fa ha annunciato 783 esuberi sui 3.728 dipendenti degli stabilimenti di Comerio e Cassinetta a causa della scarsa competitività di alcune produzioni; la trattativa ha portato a una riduzione delle uscite a 520 lavoratori, e a un piano di investimenti. Electrolux, che ha il suo quartier generale italiano a Pordenone, vecchia sede della Zanussi, ha annunciato che entro il 2008 punta a trasferire nell’Est Europa, in Estremo Oriente e in Messico il 50% della produzione europea e nordamericana. Gli attuali stabilimenti sono sotto esame, uno per uno, e vincerà l’efficienza, non la bandiera: è la logica della multinazionale. Sono già stati chiusi impianti in Svezia, Francia, Spagna e Usa, ma la decisione più clamorosa è stata la chiusura della storica fabbrica Aeg di Norimberga, con 1.750 dipendenti: la sua produzione di lavatrici e lavastoviglie sarà delocalizzata in Italia e in Polonia.
La fortuna degli stabilimenti friulani è di essere moderni e competitivi, e i programmi di investimenti per i prossimi anni sono stati confermati. Non è così per la fabbrica di frigoriferi di Scandicci (Firenze), 650 addetti, per la quale è stata nei giorni scorsi raggiunto un accordo per l’uscita di 170, dovuta alla chiusura della linea di produzione dei frigoriferi «tavolo» (non da incasso), non profittevoli, che potrebbero uscire dal portafoglio d’offerta della multinazionale. Electrolux sposterà a breve in Polonia anche il proprio centro amministrativo per il trattamento delle fatture; ciò comporterà anche 22 esuberi a Pordenone. Così la richiesta di pagamento per una lavatrice fabbricata in Italia ora arriverà da Varsavia.
Anche scaldabagni e caldaie sono prodotti il cui valore aggiunto non giustifica il trasporto: questo ha fatto, in un certo senso, la fortuna della Merloni termosanitari, di cui è presidente Francesco Merloni. La strategia della società di Fabriano ha cavalcato l’internazionalizzazione fin da un’epoca quasi pionieristica: il primo stabilimento in Cina risale al 1986, il primo in India è del 1999. «Portiamo le nostre produzioni sempre più vicine ai mercati di destinazione - spiega Francesco Merloni -. Generalmente iniziamo con un'attività di export e successivamente con la realizzazione di insediamenti produttivi diretti. Questa strategia si dirige, ormai da molti anni, verso l'Est del mondo, secondo una scelta centrata sulle aree con maggiori prospettive di sviluppo». Mts ha stabilimenti di produzione in Cina, in India, in Vietnam, in Russia. Investire direttamente sui mercati di sbocco ha permesso al gruppo di restare più «leggero» in Italia, dove si realizza «solo» il 17% degli oltre mille milioni del fatturato annuo. Gli stabilimenti nazionali sono comunque sette, finora indenni: ma di recente in quello di Rovereto sono stati dichiarati 140 esuberi su 250 addetti.
A una logica affine, in un certo senso, rispondono le batterie per auto, pesanti per essere economicamente trasportate e che in un tragitto troppo lungo rischiano di perdere carica. La Fiamm, storico marchio del settore, nel 1998 ha acquistato uno stabilimento nella Repubblica Ceca, dove ha trasferito buona parte della produzione di batterie, che oggi occupa 700 dipendenti. All’inizio del 2005 ha portato altre produzioni in India e in Cina, «due stabilimenti che in pochi mesi sono già andati in utile, confermando il successo della scelta», spiega Salvatore Torrisi, direttore generale dell’azienda. In India è stata concentrata la produzione di trombe per auto, in cui la Fiamm è leader nel mondo: e si è trattato di una delocalizzazione «dura», che ha comportato la chiusura dello storico stabilimento francese Clacson, a 60 chilometri da Parigi, con la perdita di 240 dipendenti, il trasferimento degli impianti e la riassunzione di 240 indiani. Nel maggio scorso la Fiamm ha deciso di chiudere gli stabilimenti di Almisano e Montecchio (entrambi in provincia di Vicenza). I 420 esuberi, alla fine di una trattativa sindacale, sono diventati un centinaio, e chiuderà solo Montecchio. In Italia oggi restano 900 dipendenti (nel 2000 erano circa 1.700 su un totale di 3.800) in tre stabilimenti «e soprattutto rimane il cervello creativo e tecnologico dell’azienda», sottolinea Torrisi. Che tiene a precisare come il trasferimento di produzioni in Paesi a basso costo di manodopera «abbia permesso alla società di ritrovare l’utile operativo. Fatto 100 il costo del lavoro in Italia - precisa Torrisi - nella Repubblica Ceca scende a 25, in Cina e India sotto il 5».
E proprio in questi ultimi numeri si trova la spiegazione di un fenomeno nuovo: la delocalizzazione della delocalizzazione. Ovvero lo spostamento di stabilimenti che già sono frutto di sottrazione di lavorazioni nella vecchia Europa. Il caso è quello della Zoppas Industries, radicata nel Trevigiano, che lo scorso anno aveva annunciato un taglio agli organici italiani di 620 persone su un totale di 1400. Il gruppo, tra l’altro, da alcuni anni ha spostato varie linee in Romania, dove occupa 2.500 dipendenti. Ma la Romania, alla vigilia del suo ingresso nella Ue, sta introducendo una serie di misure di protezione sociale che si rifletteranno sul costo del lavoro. «Se i costi non saranno più convenienti, sposto tutto in Cina», ha dichiarato lo scorso anno Gianfranco Zoppas, mentre era impegnato in una trattativa con il governo di Bucarest.
Sempre nel cuore del Nord Est, a Treviso, hanno fatto scalpore un anno fa i blocchi stradali organizzati dai lavoratori della De Longhi, minacciati dalla concorrenza «infragruppo» degli stabilimenti cinesi: 460 gli esuberi previsti, 250 dei quali sono già avvenuti spontaneamente.

De Longhi è in Cina dal 2001 e oggi ha quattro fabbriche per lavorazioni del metallo, della plastica e per piccoli elettrodomestici; dal 2004 fabbrica in Estremo Oriente anche macchine da caffè, radiatori a olio, deumidificatori e forni elettrici.
(1 - Continua)

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