"Troppi strateghi da tastiera. Nei cortei e sui media odio senza freni anti ebrei". Intervista a Riccardo Di Segni

Il rabbino capo di Roma: "Ostilità non solo di pochi ma molti ignorano cosa significhi vivere sotto i razzi"

"Troppi strateghi da tastiera. Nei cortei e sui media odio senza freni anti ebrei". Intervista a Riccardo Di Segni

Rabbino capo Riccardo Di Segni. È il Capodanno ebraico. Che significato assume in questo momento così drammatico?

«Il capodanno, che è l'inizio del ciclo penitenziale che culmina nel giorno di Kippur, è l'occasione non per fare una festa scatenata, ma per ritrovarsi con la famiglia, con i cari, per un esame e un ravvedimento. Chiaramente la tensione di questi giorni ci deve far riflettere, ma voglio sottolineare che nella nostra tradizione è il giorno in cui nasce Adamo, il primo uomo, quindi è il compleanno dell'umanità, con valore universale, il giorno in cui tutti passano di fronte al giudizio divino e dovrebbero ravvedersi, non solo gli ebrei».

La storia degli ebrei è una storia anche dolorosa. Non siamo in un momento paragonabile alla Shoah, ma forse si è fatta largo una consapevolezza: che questa storia di ostilità e dolore purtroppo non si è conclusa con la Shoah.

«Per noi la storia non finisce mai, è sempre piena di sorprese. Noi siamo sempre pronti. Non dico vaccinati, ma pronti. La Shoah è stato un blocco psicologico per molti, che ha limitato l'espressione di sentimento antiebraico, ma bastano pochi avvenimenti a rinfocolarlo. Anche l'informazione distorta è un'opportunità per ridimensionare il significato della Shoah».

Cosa intende?

«Intendo dire ad esempio che di fronte alle vittime di questa guerra, che purtroppo ci sono state, si è abusato della parola genocidio. Ammetto che è un argomento di straordinaria efficacia propagandistica, ma il suo uso in questo contesto è immorale».

Passato un anno dal massacro del 7 ottobre. Come è cambiata la vita degli ebrei italiani?

«Nessuno si aspettava un dramma di questo tipo con quello che ne è seguito. È cambiata in vari modi. Sicuramente ci si ritrova con l'idea che quello che doveva essere un rifugio, Israele, si è rivelato un luogo di precarietà, come si mostra ora che una pioggia continua di missili cade sulle sue città e i villaggi. La gente non si rende conto di cosa significa».

La nostra opinione pubblica ignora questo fatto.

«In Italia non è mai cascato un missile, ma se accadesse? Io credo che ci sarebbe un'ondata di giusta indignazione. Molti fanno gli strateghi da tastiera, ma non stanno vivendo questa cosa sulla loro pelle. Noi abbiamo legami familiari e affettivi particolari con quelle situazioni, e avvertiamo una profonda ingiustizia e incertezza nel modo in cui si raccontano i fatti. Quello a cui stiamo assistendo è un disvelamento, una mancanza di inibizioni nell'ostilità».

Ci sono frange ostili e poi forse una zona grigia di incertezza o incomprensione.

«Non mi sembra che siano frange. Non sono frange. Sono minoranze che con particolare durezza danno sfogo a questo sentimento».

Lei invece avverte un sentimento, un clima, di generalizzata ostilità?

«Io ho avuto anche di molte manifestazioni di simpatia e amicizia, ma devo dire che sui media, o sui social, si avverte un clima ben pesante».

«Siamo a un passo dalla caccia all'ebreo» ha detto il presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi viste le immagini del corteo e i video dei discorsi minacciosi fatti la sera stessa in un evento di estremisti e balordi.

«Un esempio di questa disinibizione che dicevo, questo disvelamento. E di questa violenza, per ora verbale».

Qualcuno sostiene che questo clima ricorda quello del 1982, con le accuse e le manifestazioni ostili che arrivarono al punto di scaraventare una bara davanti alla Sinagoga di Roma, che poi sarebbe stata bersaglio di un tragico attentato pochi mesi dopo.

«Ci sono analogie con il 1982, con i giorni di quella guerra in Libano, ma anche differenze. Non sono del tutto sovrapponibili ma anche allora si riscontrò un attacco generalizzato contro l'ebraismo di per sé, e un'ondata di attentati contro i luoghi ebraici (badi bene, non israeliani). Poi, dopo l'attentato alla sinagoga di Roma quell'odio parve svanire nell'imbarazzo e nelle espressioni di solidarietà, ma come vediamo si è prontamente ricomposto».

Le istituzioni italiane hanno tenuto un atteggiamento molto fermo, mi pare.

«Il governo è molto attento nella difesa dei siti ebraici. Devo dire però che uno dei temi circolati, e ripresi da molte parti, è quello dei due Stati. Teoricamente ragionevole, ovviamente. Si dice però: Voi ebrei che tanto avete sofferto dovete dare uno Stato ai palestinesi. Noi. Noi che a Roma o in Italia abbiamo sofferto tanto dobbiamo dare uno Stato ai palestinesi? E già questo suona strano; ma poi: quanti palestinesi vogliono avere un loro Stato in pace con Israele? Quanti di loro vogliono riconoscere Israele o convivere? La colpa è degli ebrei?».

Sui media questo argomento è molto presente.

«C'è un passo ulteriore. Viene messa in discussione l'esistenza stessa di Israele, la sua legittimità. E questa aberrazione circola a partire dall'Onu. Bisogna sfatare questo mito delle organizzazioni super partes».

E i cortei che celebrano la «resistenza palestinese» del 7 ottobre...cioè i massacri?

«Se il tema è questo si qualificano da soli».

Qualcuno propone di giocare a porte chiuse Italia-Israele il 14 ottobre, per evitare l'oltraggio di una apologia del terrorismo.

«Il fatto che nello sport ci sia questo pericolo è segno della degenerazione dei tempi».

Quali speranze possiamo coltivare?

«La speranza principale è che cessino i conflitti e che si creino le condizioni per

una convivenza pacifica. Un'altra speranza è che ci si renda conto che ci sono forze che non vogliono la pace e un'ulteriore speranza è che si rafforzi la ragione che consente di capire da dove arrivano i segnali di morte».

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