A passeggio per Roma con Gary Cooper e BB

Fra le orecchie di Giulio Andreotti e le labbra di Ava Gardner. La Hollywood sul Tevere nacque proprio lì, in un «non luogo» (ci mancherebbe...) dove s’annida una delle innumerevoli postille al Piano Marshall. La guerra è finita, andate in pace, cantava il mondo intero, da Vladivostok alla California. Ma la pace è un lavoraccio più difficile della guerra, necessita di un progetto globale. Quindi, perché non arruolare anche i nuovi eroi armati di eleganza, bellezza e fama? Così, dopo gli sbarchi ad Anzio e in Normandia, fu la volta di quelli a Fiumicino e alla Stazione Termini.
Aiutoregista nemmeno tanto occulto dell’operazione fu il Giulio nazionale, con la legge che porta il suo nome, la numero 958 del 29 dicembre 1949. Un colpo al cerchio e uno alla botte, secondo i dettami della filosofia democristiana: tutela dell’«industria filmica» italiana e, nel contempo, via libera all’«invasione» da parte degli Studios a stelle e strisce. Si apriva un nuovo ventennio. Camicie nere e fez tornavano definitivamente sotto la giurisdizione dei costumisti e di loro soltanto, sostituiti da impeccabili doppio petto per i signori e invoglianti tailleur per le signore.
Gli anni Cinquanta e Sessanta, nella Roma città non più aperta, bensì spalancata, spaparanzata (e paparazzata) sui divani dei locali di Via Veneto e sulle sedie di paglia delle trattorie trasteverine, rinnovava il proprio destino di caput mundi come fosse l’epicentro di un brivido che corse veloce sulla schiena dell’intero Belpaese, veicolato dai quotidiani e dai rotocalchi. Con lei, Ava, la diva delle dive, giunsero in ordine sparso i vari Montgomery Clift e Kirk Douglas, Audrey Hepburn e Vera Miles, Herry Fonda e Errol Flynn, Brigitte Bardot e Anita Ekberg.
Nel bel mezzo di quella cuccagna, vera epopea di uno star system nel quale gli attuali, inconsistenti epigoni (nostrani o importati che siano) non avrebbero neppure meritato il ruolo di comparse, tutt’al più quello di facchini e truccatrici, alcune voci irriverenti di bastiancontrari facevano, tutto sommato, parte della sceneggiatura. Scrive per esempio Gian Carlo Fusco sul Giorno dell’11 marzo 1959: «Distruggitrice di miti, logoratrice di celebrità, cisterna di calmi acidi ove tutto si consuma e sparisce: Roma fu chiamata da qualcuno “il cimitero degli elefanti”. Gigantesca carta moschicida, cosparsa di miele primaverile, sulla quale i grossi personaggi di tutto il mondo rimangono appiccicati e si divincolano inutilmente, fra l’indifferenza generale». Bellissima immagine, grande penna. Ma quelle due parole, «indifferenza generale», smascherano il partito preso del caustico fustigatore.
Basta scorrere i testi e soprattutto le fotografie del volume Hollywood sul Tevere. Anatomia di un fenomeno (Electa, pagg. 176, euro 35, a cura di Stefano Della Casa e Dario E. Viganò) per capirlo. Anzi, per ricordarlo, anche se si hanno meno di cinquant’anni. Poiché l’epica spettacolare, sia quella dei colossali Ulisse di Mario Camerini (’54) e Guerra e pace di King Vidor (’56, milleduecento metri cubi di neve artificiale e 120mila figuranti, tanto per dire...), sia quella degli affreschi da cartolina (Vacanze romane di William Wyler, ’53) o da circo urbano (La dolce vita di Federico Fellini, ’60) ha ormai un posto fisso nei libri di storia.
Esauritasi la spinta «sociale» del neorealismo, anche le stelle italiane come Sophia Loren, Anna Magnani, Alberto Sordi seguono traiettorie diverse. Sprovincializzare è un brutto verbo che sarebbe fuori luogo. Fu, invece, il primo passo nella direzione del nuovo imperativo: globalizzare. The show must go on rieditando il culto della personalità. Dentro e fuori dal set. Con le bizze di Kirk Douglas e le sbornie di Clark Gable, le notti folli di BB e i tormenti di Silvana Mangano.
Ma a smentire l’«indifferenza generale» di cui parlava Fusco, in questo libro che miscela sapientemente aneddoti e cifre, commenti e notizie, sono i volti dei romani qualunque immortalati per caso accanto a Gary Cooper o Jack Lemmon. Nei loro sguardi smarriti e incantati, nelle loro facce pallide s’accendono timidi sorrisi.

Stanno in disparte, con le mani sui fianchi o in tasca, per timore di infrangere le incarnazioni del sogno americano. E se un anonimo ammiratore accende la sigaretta proprio a lei, Ava Lavinia Gardner, tutti gli occhi si posano sulla fiamma e bruciano con essa.

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