Il pavè tradisce il suo re Cancellara e cancella l’Italia

Ci sono corse, c’è un ciclismo, c’è uno spettacolo che non bisognerebbe mai perdersi. E’ il mondo un po’ antiquato e un po’ naif delle classiche nordiche, una specie di modernariato che perpetua nel tempo sfide e valori altrove già rimossi e seppelliti. Sono le corse, è il ciclismo, è lo spettacolo che rilanciano una volta all’anno, come in un rito quaresimale, i tormenti della fatica, del dolore, della penitenza. E’ il frenetico ballo della mattonella che si balla sulla mattonella chiamata pavé.
Ha aperto il Giro delle Fiandre, chiuderà domenica la Parigi-Roubaix. Corse antichissime, che in Belgio e in Francia aprono i telegiornali di prima serata, non tanto per il risultato in sè, quanto per la gloria e il seguito popolare portati appresso. Per sette giorni - più avanti il ciclo nordico si chiuderà con la Liegi-Bastogne-Liegi, tutta un’altra prova, senza pavé, solo resistenza fisica - per sette giorni gli specialisti di queste ambientazioni vagamente fosche e tenebrose vivono di fatto in un moto sussultorio perenne. Tra gare e allenamenti, è un continuo saltare di reni, di polsi, di articolazioni, che alla fine richiede lunghi giorni di massaggio e di riposo. Raccontava il compianto Franco Ballerini, monsieur Roubaix, che il trattamento di queste gare gli faceva rimpiangere i sobbalzi del motocross, disciplina amata forse più di ogni altra.
Non è tutto uguale, il pavé del Nord. Quello belga è un cubo appena più grande del nostro sampietrino, quindi provoca una vibrazione frenetica della bicicletta. Quello della Roubaix, soprattutto quello della leggendaria foresta di Arenberg, è un cubo gigante, però tra l’uno e l’altro ci sono fessure profonde, così che la bicicletta subisce autentici crash-test per ore, con immaginabili ripercussioni sullo scheletro umano (qualcuno, per un certo tempo, provò a montare anche degli ammortizzatori, perdendo però troppo in velocità).
E’ un ciclismo assurdo e surreale, ma straordinariamente bello e suggestivo. Si può dire davvero romantico, perchè nell’era ipertecnologica delle ipercomodità, sopravvive con il suo intatto marchio di prova sado-maso. Inutile specificare che non è un ciclismo per tutti. I più grandi dominatori di Giri e Tour, da Indurain a Contador, da Pantani ad Armstrong, girano da sempre alla larga. Non è pane per i loro denti. Qui trovano solo rischi di fratture e di artrosi. No, serve il tipo spaccapietra. L’ultimo re del settore si chiama Fabian Cancellara, svizzero possente e potente, non a caso soprannominato Spartacus. Con la sua irruenza da gladiatore, l’idolo del Canton Ticino riesce a pedalare magnificamente sul fondo infernale, la stessa fluidità di una star sul tappeto rosso degli oscar. Sempre atteso da un pronostico scontato, questo strapotere rischia solo di giocargli brutti scherzi di autostima e presunzione. Si sente talmente forte da credersi onnipotente. Soltanto così, ora, si spiega la sconfitta nel primo round del furibondo match: al Giro delle Fiandre, fortunosamente corso senza fango, lo Spartacus della terra degli emmenthal deve accontentarsi di un povero terzo posto, battuto in una volata a tre dal belga Nuyens e dal francese Chavanel. Sembra l’esito della solita barzelletta: c’è un belga, c’è un francese, c’è uno svizzero. Ma Cancellara non ha molta voglia di raccontarla. La batosta gli arriva dopo l’ennesimo dominio in corsa, prima con una fuga che lo porta a un vantaggio di un minuto, quindi, ripreso sul mitologico Muro di Grammont, con un altro scatto nel finale, seguito dai due pesi morti pronti per la beffa. Dopo tanto spendere, non gli resta nemmeno un cent per lo sprint. La punizione è puntuale e cocente, niente da dire. Ma non incide minimamente sulla reputazione del soggetto: chi lo crede morto deve fare bene i propri conti, perchè già domenica, nella Roubaix, rischia di trovarsi davanti un fantasma spaventosamente risentito, affamato di spietate vendette...
C’è un belga, c’è un francese, c’è uno svizzero: nella barzelletta c’è sempre anche un italiano, puntualmente capace di raggirarli tutti. Neppure stavolta, invece, l’italiano compare, e neppure stavolta c’è molto da ridere (si allunga l’astinenza, non vinciamo una classica dal Lombardia di Cunego, anno 2008: forse ormai conviene puntare al record dei cent’anni). Al Fiandre si vede nel finale un buon Ballan, però fuori dai primi dieci nella volata degli inseguitori. E si intravede il solito incompiuto Pozzato. A quest’ultimo, che sarebbe il nostro specialista migliore, fa onore soltanto l’onestà del dopogara: «Non voglio complimenti per la mia prova da protagonista: in queste corse conta solo vincere. Se non vinci, sei uno sconfitto».
Perfetto, è detto tutto.

Ci sono luoghi e appuntamenti, come Wimbledon, come Monza, come la finale del Mondiale, che non prevedono mezze vittorie e simpatiche consolazioni: si entra in quel mito soltanto dalla porta maestra della vittoria. Così è il Giro delle Fiandre, così sarà domenica la Parigi-Roubaix. Sono i luoghi della storia, della memoria e della gloria. Per eroi scolpiti nella pietra. Chi perde resta solo di sasso, come noi.

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