Pechino: condannato il dissidente simbolo

Il regime cinese non cambia mai: tre anni e mezzo di carcere per Hu Jia, noto per le sue denunce su internet delle violazioni cinesi in tema di Aids, diritti religiosi e inquinamento. Blande proteste di Ue e Usa

Pechino: condannato il dissidente simbolo

Tre anni e mezzo e fuori dai piedi. Se lo sono levati di torno con i vecchi sistemi. Un’accusa «d’incitamento alla sovversione contro lo Stato», un processo sbrigativo, una difesa così compiacente da dichiarare che l’imputato ha confessato il crimine, riconosciuto gli eccessi e accettato la punizione. Mancano solo i ringraziamenti alla corte.
Togliersi dai piedi Hu Jia era per Pechino quasi un obbligo perché, come ricordano i blog su cui rimbalzavano le sue denunce su inquinamento, diritti religiosi e flagello dell’Aids, il 34enne Hu Jia «non è un dissidente come gli altri». Lui è «Tienanmen 2.0», è il cyber oppositore capace con una connessione in rete di raggiungere 220 milioni di cinesi, ovvero la più vasta popolazione in rete del pianeta. Time Magazine, non a caso, lo inserisce, nel 2007, tra i cento uomini più influenti del mondo.
Il ciclone Jia inizia a scuotere il moloc cinese ai primi del 2006 lanciando una campagna internet in difesa dei contadini sterminati dall’Aids e minacciati dalla devastazione ambientale. Affiancato dalla 24enne moglie Zeng Jinyan, un’appassionata animatrice di blog che da quattro mesi gli ha dato una figlia, l’ingegnere informatico Jia trasforma il proprio condominio nell’avamposto dei diritti civili.
In pochi mesi i suoi interventi diventano il simbolo della lotta per i diritti religiosi e il diritto al dissenso, ma gli costano l’isolamento mediatico e domiciliare seguito, lo scorso 27 dicembre, dall’arresto vero proprio. La condanna comminatagli cinque mesi prima dell’apertura dei Giochi sancisce, insomma, la decisione di metterlo a tacere e garantire un clima olimpico pacificato e controllato.
«Alla fine ha capito pure lui che alcune delle sue dichiarazioni erano contrarie alla legge», spiega al termine del processo l’avvocato «difensore», Li Jinsong, con toni che sembrano mutuati dai verbali della «rivoluzione culturale». Solo l’altro avvocato, evidentemente abilitato ad atteggiamenti meno allineati, osa far notare che «la legge sull’incitamento alla sovversione non ha limitazioni chiare e la Costituzione garantisce il diritto di parola ai cittadini».
Ma sono bizantinismi. La verità la esprime solo la corte ricordando gli articoli pubblicati da Jia sui siti web all’estero, i suoi commenti via internet, le interviste rilasciate ai media stranieri e le attività sviluppate tra l’agosto 2006 e l’ottobre 2007 per «istigare altre persone a sovvertire il potere dello stato e il sistema socialista». Accuse che nessuno all’estero deve criticare, sottolinea il ministero degli Esteri di Pechino, perché significherebbe «intromettersi negli affari interni dello Stato». La stessa moglie di Hu Jia, pur non essendo agli arresti, non può uscire dalla sua abitazione alla periferia di Pechino.
E così l’Unione Europea e gli Stati Uniti, che avevano nei mesi scorsi sollecitato clemenza per il dissidente, accolgono senza troppo clamore la condanna. Del resto il destino di Hu Jia e degli altri dissidenti era segnato.
Le statistiche pre-olimpiche parlano chiaro. In tre anni i processi per reati politici sono balzati dai 349 del 2005 agli oltre 619 dell’anno scorso. E i 742 arresti del 2007 rappresentano la cifra più considerevole per il decennio in corso. Quelle cifre, pur rappresentando meno del tre per cento dei dati reali, come ricordano i dissidenti all’estero, esprimono una chiara tendenza.

Accantonata le promesse di maggiore disponibilità e apertura nei confronti del dissenso formulate al momento dell’assegnazione dei Giochi, Pechino si prepara a celebrare le prossime Olimpiadi serrando la morsa della repressione.

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