Perahia, la formula sonora dell’ambasciatore di Bach

È un gigante della tastiera Murray Perahia, oggi (ore 20.30) in Conservatorio, per la settima volta ospite della Società del Quartetto. Uno di quelli che dal pianoforte riesce a ricavare momenti che ti si stampano nella testa per sempre, da artista con tutti i crismi qual è. Per la legge del contrappasso, proprio a lui toccava, all'alba degli anni Novanta, la triste sventura di ritrovarsi una mano via via inabile a causa di un incidente al pollice. Lui, che dopo la medaglia al concorso Leeds, nel 1972, aveva conosciuto un'ascesa inarrestabile. Si ritirava dalle scene, affogando frustrazioni e depressione nell'amato e congeniale Johann Sebastian Bach. Congeniale per un pianista d'intelletto come Perahia, naturalmente incline alla geometria musicale di Bach, a quelle cattedrali sonore che hanno formato le generazioni di compositori successivi. Bach si rivelò un balsamo tale che non appena la mano ritornò a essere operativa, come e più di prima, Perahia volle proprio ripartire da questo specialissimo compositore. Bach è forse l'artista che più di tutti esprime il Perahia del dopo rinascita, è quasi una sua seconda pelle tanto che i brani bachiani sono ormai un must dei programmi di questo concertista americano. A Milano, il recital apre proprio con la Partita numero uno di Bach. Dopo una sosta nel classicismo maturo di una delle ultime Sonate di Ludwig van Beethoven, l'opera 109, il pianista rende omaggio a Frederyk Chopin, nel bicentenario della nascita. Offre uno spaccato del compositore per eccellenza per pianoforte, con una collana di Studi, Mazurche, Ballate e Scherzi. Pur con il fare discreto da gentiluomo anglosassone (è nato a New York nel 1947, londinese d'adozione), Perahia è entrato nel novero degli interpreti che più hanno inciso nella storia del pianismo degli ultimi cinquant'anni. Lo intuirono leggende della tastiera come i suoi due mentori Rudolf Serkin e Vladimir Horowitz, frequentato fino al giorno prima della scomparsa. C'è poi un gustoso aneddoto legato al sodalizio Horowitz-Perahia. Perahia insiste per poter prendere lezioni dal grande concertista russo, che glissa. Poi, un bel giorno, Horowitz si decide a chiamare quel giovanotto insistente: «Desidero parlare personalmente con il signor Murray Perahia, sono Mister Horowitz». E l'altro, «Mister Horowitz il droghiere?».
E' piuttosto singolare la storia di Perahia, nato nel Bronx. Qui la famiglia risiedeva dal 1935 dopo la fuga da Tessalonica: sfuggiva così alle persecuzioni naziste che falcidiarono il ceppo dei Perahia. Una volta a New York, in piena fase di ricostruzione di sé e della famiglia, il padre riversava sul figlio le proprie passioni e aspirazioni. E il piccolo Murray già a quattro anni si ritrovava a muovere le dita su una tastiera. Perahia ama raccontare di non essere stato propriamente un allievo modello, almeno fino ai quindici anni quando, nella tipica fase in cui sono gli estremi a prevalere, si buttava a capofitto nella musica. Si iscriveva in una scuola a Manhattan, studiava con lo zelo che l'avrebbe accompagnato poi, e tempo qualche anno diventava il pianista che tutti conosciamo. Cioè l'interprete dalle letture intelligenti e personali, dagli inviti superlativi e dalle amicizie professionali invidiabili. Perahia è sempre stato un profondo scrutatore dell'anima della musica, anche nella fase della beata giovinezza quando i giochi atletici di dita agili e possenti spesso prendono il sopravvento sull'essenza dell'arte. Questo grado di profondità, già nelle corde di Perahia, s'è radicato ulteriormente dopo gli anni Novanta, cioè una volta risolto il problema alla mano. Una mano così minuta, ma evidentemente di grande elasticità, da farne un caso pianistico.

Cresciuto in una famiglia sefardita, Perahia ha sempre rimarcato il suo essere ebreo. Da un anno è pure presidente del Centro di Musica di Gerusalemme, istituzione che provvede alla formazione e al lancio dei talenti della musica in Medioriente.

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