Performance, ori olimpici e senso della vita

Chiavari. A messa, l’anziano prete parla delle Olimpiadi. Mi capita di rado, credo soprattutto per colpa mia, di ascoltare un’omelia interessante. Ma qui è bene drizzare le orecchie.
Il tono del prete è leggermente amaro. Anche lui, come tutti, ama lo sport, e le Olimpiadi costituiscono un’attrattiva cui anche per un prete è difficile resistere. C’è però qualcosa che non va, una specie di nota stonata. Non ce l’ha con l’organizzazione, né con la Cina, men che meno con gli atleti. Ce l’ha con i telecronisti. E io, prima ancora di conoscere le sue ragioni, ho il presentimento che quello che sta dicendo è vero. Perché i telecronisti? Perché è in gran parte da loro che dipende la lettura, e quindi il senso che un evento sportivo acquista agli occhi degli spettatori televisivi. Gli strali del prete riguardano soprattutto questa esasperazione dell’idea di performance. Il risultato mirabolante, l’impresa stratosferica, il dettaglio cronometrico, la misura raggiunta.
Tutto questo ci separa, ci stacca dal significato delle cose. E questo modo di ragionare ci accompagna sempre, giorno dopo giorno. Le Olimpiadi non sono che un pezzo della vita deludente di sempre, nella quale siamo continuamente indotti a fare i conti con pesi e misure. Con la sola differenza che qui ci sono i superman.
E allora eccoli, i cronisti, incapaci di rassegnarsi all’idea che, per esempio, Usain Bolt abbia stabilito il record dei cento metri piani smettendo quasi di correre negli ultimi metri, e a congetturare sul tempo che avrebbe fatto se avesse forzato l’andatura fino in fondo, se il vento a favore fosse stato di un metro e novanta al secondo, e così via. Senza curarsi del fatto che ci sono uomini e donne che - quale che sia l’ordine di arrivo e il tempo impiegato - dedicano la vita a bruciarla in pochi secondi. E magari vinceranno solo i campionati del loro Paese, o si riterranno felici per aver raggiunto la semifinale olimpica. Il senso non è qualcosa che produciamo noi. Prendete le otto medaglie d’oro di Michael Phelps. Tutta questa fatica. E adesso che ha otto medaglie d’oro? A chi serviranno? Forse gli daranno un lavoro, ma già domani saranno una cosa del passato.
Un grande personaggio del nostro Paese mi ha detto un giorno queste parole: «Quello che conta in un’impresa è il suo valore aggiunto. Ma io ho impiegato anni per capire che il valore aggiunto è quella cosa che un uomo porta da fuori». E ha aggiunto: «Sembra una sciocchezza, invece è la cosa meno scontata che ci sia».

In fondo, la questione fondamentale sta tutta qui: se il senso è un prodotto della nostra capacità, o se viene da fuori. E non è un dilemma da lezioni accademiche, anzi: è così concreto che si gioca persino in una cronaca sportiva.

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