Il piacere di riscoprirsi artigiani

Prima parte di una trilogia prossima a vedere la luce per intero, L’uomo artigiano è stato concepito e scritto prima della deflagrazione della crisi in cui ci troviamo, eppure ci offre una chiave essenziale per comprenderla

Si è già parlato, su queste pagine, di un libro che a mio avviso è il più importante scritto in questi ultimi anni: L’uomo artigiano, di Richard Sennett (Feltrinelli, pagg. 315, euro 25).
Non ho intenzione di recensirlo di nuovo, ma solo di fare una sottolineatura che mi pare essenziale per cattolici e non. Prima parte di una trilogia prossima a vedere la luce per intero, L’uomo artigiano è stato concepito e scritto prima della deflagrazione della crisi in cui ci troviamo, eppure ci offre una chiave essenziale per comprenderla.
Il libro insiste sulla necessità di un riavvicinamento, che l’Occidente ha sempre vissuto in modo problematico, «tra mano e testa, tra scienza e tecnica, tra arte e mestiere». La storia occidentale ha in effetti esasperato una concezione parziale del tempo e dell’incidenza della temporalità sullo sviluppo della civiltà. Così che la disciplina (occidentale) che richiede all’artigiano di compiere bene il proprio lavoro si scontra con la tendenza (anch’essa occidentale) ad accorciare tempi e costi. Un lavoro mal fatto costa meno perché richiede minor tempo. Questo è un problema con il quale noi facciamo i conti tutti i giorni (basta fare la spesa al supermercato) e non è solo di questi ultimi mesi, ma si riaffaccia periodicamente alla superficie della storia.
Le osservazioni, geniali e mai scontate, contenute nel libro di Sennett, lasciano trapelare un’ipotesi di lettura della crisi diversa da quelle a cui siamo abituati. Se, infatti, ci concentriamo per qualche istante non tarderemo a ritrovare, nel tempo che ha preceduto lo scoppio della crisi, i segnali di un’irrequietezza che non riguardava soltanto l’economia o il lavoro, e nemmeno la cultura o i sentimenti, ma l’intero nostro modo di vivere.
I temi più diversi di cui è stato pieno il dibattito culturale serio di questi ultimi anni - dal bisogno sempre più diffuso di raccontarsi a quello di recuperare il valore della manualità, dal bisogno di valorizzare i prodotti sul territorio alla necessità di ridefinire concetti passati di moda come quello di «bene comune» - erano il segno di un disagio profondo, che molti uomini intelligenti avevano cominciato a interpretare, aprendo scuole professionali, recuperando giovani border line al senso del lavoro, mettendo il mondo giovanile in rapporto con gli artigiani.


Forse questo disagio, questo senso di lontananza «tra la mano e la testa» (perché l’uomo che lavora male non può essere felice) è stato la prima causa, la più profonda, dell’attuale crisi. Ma indica anche una via d’uscita.

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