Il recente congedo di Irene Bignardi dal Festival di Locarno - dopo averlo diretto con autorevolezza per cinque edizioni - è, per sé solo, un segnale significativo delle attitudini tutte progressive di questa volitiva signora: giornalista, critico letterario e di cinema, scrittrice, che oggi ha scelto di pubblicare una silloge di testi scritti nellarco di 25 anni sul «pianeta America». Il libro, intitolato icasticamente Americani (Marsilio, pagg. 222, euro 15) è un esauriente seppure informale regesto di personaggi, situazioni, eventi tipici della realtà statunitense per fornire indizi, sintomi tutti impressionistici, tutti immediati. Per nulla casuale, infatti, il sottotitolo: «Un viaggio da Melville a Brando».
E basta aprire il capitolo iniziale di Americani per essere risucchiati nel vortice di unaffabulazione precipitosa e irresistibile: «Sarà stato un segno del destino che Melville sia nato a New York il 1° agosto del 1819, dodici giorni prima che lEssex partisse da Nantucket per il suo tragico viaggio?». Ma non è soltanto questo intrigante dettaglio riguardo agli antefatti di Moby Dick a trascinarci verso volti, storie, vicende straordinarie. Nel brano incentrato su William Faulkner di legge, non senza qualche spasso: «... Sanctuary, pubblicato nel 1931 (seimila copie di venduto...). Cosa ancora più singolare, nellepoca dei grandi editor come Maxwell Perkins, che faceva e disfaceva la prosa di gente come Fitzgerald, Hemingway e Thomas Wolfe, non si provarono mai a editarlo ... Faulkner avrebbe detto: Posso ubriacarmi, incazzarmi, farmi scavalcare, qualsiasi cosa. Ma non mi faccio editare».
Cè, ad esempio, la crepitante memoria incentrata sui dubbi fasti e le accertate miserie della Hollywood dantan (da John Ford a Elia Kazan) e ai più ravvicinati miti e riti del devastante star system (da Marlon Brando a Marilyn Monroe; da Ingrid Bergman a Audrey Heppurn), del cinema fiammeggiante degli anni Sessanta-Settanta. Tutto il mondo, una dimensione «altra» che è stata anche tanta parte del nostro immaginario. È celebre lepisodio riferito a John Ford che, in pieno maccartismo, polemizza fieramente col reazionario Cecil B. De Mille accusatore del liberal Mankiewicz già in fama di rosso: «... benda sullocchio, berretto da baseball e scarpe da tennis... si presentò: Mi chiamo John Ford. Faccio western... Penso che non ci sia nessuno in questa stanza che sappia meglio di Cecil B. De Mille quello che il pubblico americano vuole. E certamente lui sa come darglielo. Pausa. Ma tu non mi piaci, C. B., e non mi piace quello che hai detto qui stasera. E il suo intervento, a quanto si sa dallo stesso Mankiewicz, fu decisivo». Esemplare, poi, risulta quella sorta di epitaffio intitolato «Una tragedia americana» dedicato - esemplare suggello della sua fatica - a Marlon Brando: «Era il più grande. Era il più bello.
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