Con una pillola adesso si può curare la sclerosi multipla

Che la ricerca farmacologica, nell’ambito della sclerosi multipla, fosse ormai prossima ad un importante traguardo, era cosa attesa. Ora ecco in arrivo uno straordinario e concreto risultato. Anche in Italia è disponibile il primo trattamento orale (il farmaco si assume una volta al giorno) approvato per la sclerosi multipla (fingolimod), capostipite di una nuova classe di farmaci chiamati modulatori dei recettori della sfingosina 1-fosfato.
Una terapia potente, con importanti benefici terapeutici per una patologia ad andamento cronico ed evolutivo che solo in Italia riguarda 60mila persone (soprattutto giovani e per lo più di sesso femminile).
«Fingolimod - spiega Giancarlo Comi, professore di neurologia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano - sta cambiando la malattia, perché ha un’efficacia due volte maggiore rispetto alle terapie di prima linea fino ad oggi utilizzate. Un’ulteriore evidenza oggettiva della potenza di questa molecola è costituita dalla significativa riduzione dell’atrofia cerebrale che caratterizza la patologia». Il farmaco ha un meccanismo d’azione innovativo e ha la capacità di legarsi ai recettori per la sfingosina-1-fosfato espressi su molti tessuti,inclusi i linfociti che, a causa di questo legame, vengono intrappolati nei linfonodi, proprio perché viene meno la funzionalità del recettore che è indispensabile per il ricircolo dei linfociti nel sistema circolatorio e nei linfonodi. «Inoltre- prosegue Comi - interagendo con i recettori S1P espressi su alcune cellule neurali, fingolimod può indurre effetti neuroprotettivi».
L’approvazione del farmaco (sviluppato da Novartis) si è basata su un ampio programma di studi clinici. Ad oggi sono oltre 30mila i pazienti trattati, per un totale di 25mila soggetti-anno di esposizione. In particolare, nei pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente ad alta attività di malattia, nonostante la terapia con interferone, il trattamento con fingolimod ha ridotto il tasso annualizzato di ricadute fino al 61% rispetto ad interferone beta-1a.

Inoltre nelle sperimentazioni ha dimostrato di ridurre la perdita di volume cerebrale del 40% rispetto ad interferone beta-1a, l’attività infiammatoria di malattia alla risonanza magnetica nucleare (RMN) del 55% rispetto ad interferone beta-1° e di ridurre di un terzo il rischio di progressione della disabilità.

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