Si dice «parla come mangi». E si dice anche «se si litiga in cucina ogni pasto va in rovina». Insomma che il cibo abbia risvolti culturali e linguistici è cosa risaputa e connaturata alla civiltà stessa. Quello che inseriamo nel nostro corpo per nutrirci non è neutro, porta con se marcate connotazioni di bene e di male. Tanto per dire, chi volesse fare un censimento dei tabù alimentari esistenti nel mondo dovrebbe portare avanti un lavoro certosino e lunghissimo, dal maiale alle cozze passando per le fave (sgradite al filosofo Pitagora), nell'elenco di ciò che è vietato per qualcuno si può trovare praticamente di tutto.
Oggi per certi versi siamo nel pieno di una guerra culturale per il cibo. È una guerra combattuta su più fronti locale contro globale, tradizionale contro vegano, industriale contro artigianale, sano contro godereccio... I fronti sono mobili e il nemico di oggi può essere l'alleato di domani. Vediamo di citare gli ultimi esempi. La nota azienda automobilistica Volkswagen è arrivata a levare i wurstel dalle proprie mense per non scontentare parte del suo pubblico e dei dipendenti che ormai vede la carne come il male (quasi che i mangiatori di salsicce fossero antropofagi). Erano mesi che l'azienda veniva accusata di produrre più wurstel che automobili. Ora i menu verranno aggiornati con molto più «sani», o comunque politicamente accettabili, piatti vegetariani e con una particolare attenzione per i vegani a cui non è il caso di somministrare nemmeno uova o latticini. E si combatte anche sui nomi dei piatti. Molti food blogger britannici se la sono presa con la definizione di pollo al curry perché avrebbe odor di colonialismo. Battaglia anche sul the dello Yorkshire che non è dello Yorkshire e via discorrendo. Non deve stupire anche in Italia c'è chi se l'è presa con la pasta alla puttanesca perché nel nome sarebbe poco riverente rispetto a questioni di genere. Non parliamo poi del boero o delle abissine (intese come tipo di pasta). Abbiamo parlato della questione con una storica contemporaneista, esperta della tradizione alimentare italiana, Emanuela Scarpellini, nota al grande pubblico per libri come: A tavola! Gli italiani in sette pranzi o L'Italia dei consumi dalla Belle Époque al nuovo millennio (entrambi titoli usciti per i tipi di Laterza). Una chiacchierata per capire quanto arrosto ci sia sotto tutto questo fumo attorno al cibo e alla sua natura.
Professoressa Scarpellini quanto è forte il rapporto tra il cibo e la cultura, tra ciò che si mangia e il senso di identità di un popolo ?
«È fortissimo. In particolare nel caso italiano, secondo me. Forse solo la Francia ha un rapporto così forte tra cibo e cultura. Ma nel caso francese è un rapporto di identità nazionale, è il cibo della corte o dei ristoranti di lusso che ha fatto scuola all'interno del Paese e poi all'estero. Invece, il cibo, in un Paese a lungo frammentato come l'Italia, racconta identità più piccole, regionali, cittadine. Alla fine addirittura singoli paesi hanno un loro piatto tipico, una loro ricetta particolare. Questa è un'enorme fonte di ricchezza e ha avuto anche grandi effetti di promozione dei nostri prodotti all'estero».
Una tradizione sedimentata...
«Sì, ma una tradizione anche aperta al cambiamento. Se ci pensa bene anche cose considerate tradizionali della nostra cucina hanno provenienze disparate, ci sono arrivate da molto lontano. Basta citare il pomodoro o la patata. La forza della cucina italiana è legare l'alto e il basso, il piatto complicato a quello semplice. È anche questo che ci ha consentito di esportare il nostro modello alimentare all'estero con grande successo».
Ogni popolo ha i suoi tabù alimentari, la Storia ce lo insegna. Oggi però si presentano dei tabù nuovi come il veganesimo e persino i wurstel in Germania devono farci i conti.
«Verissimo, qualsiasi cultura ha una serie di tabù alimentari. Basti dire che nella nostra, legata al cattolicesimo, si mangiava di magro, senza carne, in una serie di giorni previsti dal calendario religioso. Alla fine per gli osservanti e i religiosi potevano arrivare ad essere quasi un terzo dei giorni dell'anno. Oggi la situazione è più complessa. Da un lato esiste un tabù etico. C'è chi non vuole uccidere gli animali, o un tabù ecologico legato alla sostenibilità ambientale. Ma, alla fine, credo che per molti a pesare davvero sia l'idea che una certa alimentazione sia più sana di un'altra. Conta molto più il mi ammalo di meno, vero o presunto, che il movente etico. Da questo punto di vista la nostra tradizione alimentare, che è molto varia, riesce anche a venire incontro a questo tipo di esigenza senza snaturarsi particolarmente».
Sì è arrivati anche al ridicolo, la guerra sui nomi dei tipi di pasta come prendersela con «le abissine».
«Questo ci dice molto sulla centralità del cibo nelle nostre vite. Non c'è modo che la cultura e anche la politica possa evitare di intervenire sul cibo, è sempre al centro del dibattito. La politica vuol sempre battezzare i cibi, spingerci verso un cibo o un altro. Che la cosa poi funzioni è tutt'altra questione».
Mi fa qualche esempio?
«L'Italia ha attraversato una prima battaglia sui nomi dei cibi, e decisamente più intensa di quella attuale, ai tempi del futurismo e del fascismo. Allora il bersaglio erano i nomi stranieri. E c'è da dire che i futuristi dimostrarono anche una creatività che adesso manca. Il sandwich diventò tramezzino. Il bar il qui si beve. Ci fu addirittura l'invenzione del meraviglioso polibibita al posto della parola straniera cocktail. Quindi, non mi stupisce che un'epoca in cui il tema di genere e del politicamente corretto è forte rifletta il dibattito anche sul settore alimentare».
Sì, ma certe uscite e certi vincoli sfiorano proprio il ridicolo o no? Come si trova un limite, un punto di equilibrio?
«Guardi, ci pensa la Storia. Moltissime delle invenzioni linguistiche dei futuristi sul cibo sono scivolate via. Lei dice marrons glaces e non castagne candite. È il tempo che decide. Molto del dibattito sul cibo di oggi è strettamente connesso a temi e situazioni che, tra dieci anni o venti, potrebbero essere completamente diverse e, quindi, spingere il dibattito in altre direzioni. L'artificioso cade sempre in disuso o non fa presa. Quello che resta in quest'ambito è quello che si sposa con la tradizione precedente e ci si appoggia.
Ma ribadisco per quanto riguarda la tradizione culinaria italiana, tra varietà e capacità di assorbire, davvero siamo di fronte ad un patrimonio solido capace di adattarsi sempre ai tempi. E per noi l'incontro con la globalizzazione è di lunghissima data vista la nostra centralità nel Mediterraneo».
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