Nel suo improvviso appello televisivo ai concittadini sudcoreani con cui ha annunciato lo scioccante ricorso allo stato di emergenza “per salvare la democrazia”, il presidente Yoon ha fatto una sottolineatura importante: nulla cambierà in termini di nostri impegni internazionali. Non è un aspetto marginale. La Corea del Sud non “è” semplicemente un Paese con un ruolo importante e una precisa collocazione al fianco degli Stati Uniti ed entro il perimetro del mondo occidentale, bensì “esiste” unicamente in quanto tale.
Non ci sarebbe una Corea del Sud se non ne esistesse anche una del Nord ad essa contrapposta, e questa divisione dell’unica nazione coreana è il prodotto di una guerra – combattuta tra il 1950 e il 1953 – che fu il primo conflitto aperto tra mondo libero e campo comunista dopo la Seconda guerra mondiale.
Yoon rivolge all’opposizione politica del suo Paese, che ha la maggioranza in Parlamento a Seul, l’accusa gravissima non solo di agire con l’unico vero scopo di impedirgli di svolgere il lavoro politico per cui è stato eletto, ma di far questo in combutta con il nemico mortale della Corea del Sud, il dittatore comunista del Nord Kim Jong-un. Il presidente fa intendere insomma di essere oggetto di un complotto per minare alla base la Corea democratica. Per contrastarlo, però, ha deciso di fare ricorso a uno strumento anti democratico per eccellenza: la sospensione delle libertà politiche, presumibilmente solo per il tempo a lui necessario per “fare pulizia”.
Questa mossa estrema e così inattesa scuote però l’intero sistema di alleanze internazionali di cui Seul è parte integrante. In primo luogo sconcerta – o così sembra, essendo tutto al momento quasi incredibile – la Casa Bianca, dove tuttora siede un Joe Biden che nega di essere stato avvertito di quanto stava per accadere a Seul da uno Yoon con cui pure ha uno stretto rapporto anche personale.
Un Biden che con Yoon ha lavorato pazientemente in questi ultimi tempi per costruire una partnership triangolare tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone, in funzione difensiva contro la Cina e il suo espansionismo sostenuto dalla Corea del Nord e dalla Russia di Vladimir Putin.
Yoon – che dopo la firma della stretta alleanza tra Pyongyang e Mosca si è anche molto avvicinato all’Ucraina - assicura che anche sotto legge marziale la Corea del Sud rimane un affidabile alleato per gli Stati Uniti, ma col passare delle ore la sua sembra una scommessa mal ponderata dettata da una frustrazione generata da cause politiche interne. Seul non è Tbilisi, dove in queste ore la polizia georgiana può bastonare impunemente la folla che contesta un potere autocratico: è la capitale di un Paese libero che ha vissuto per l’ultima volta simili limitazioni delle libertà 45 anni fa e non intende subirle. E il suo alleato chiave non è la Russia autocratica, ma la democrazia americana.
La presa di posizione di Biden, ricordando che in Corea del Sud stazionano 29mila soldati americani decisivi per la sua sopravvivenza a fronte di un nemico più che mai minaccioso, è stata chiara: l’alleanza con Seul rimane “ferrea”, ma ci aspettiamo che il voto del Parlamento che annulla la legge marziale sia rispettato.
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