
Con un atterraggio ad Hanoi il 14 aprile scorso, il presidente cinese Xi Jinping ha dato il via alla sua prima missione diplomatica all'estero del 2025. La visita in Vietnam ha rappresentato non solo un gesto simbolico, ma anche il primo atto concreto di una rinnovata offensiva diplomatica di Pechino in Asia, in risposta alle crescenti tensioni commerciali con gli Stati Uniti.
Il vertice di inizio aprile
Pochi giorni prima della partenza, l’8 aprile, Xi aveva convocato un vertice a porte chiuse con il premier Li Qiang e i membri chiave del comitato permanente del Politburo del Partito Comunista Cinese. È stata la prima riunione di alto livello dal 2013 dedicata alla cosiddetta “diplomazia di buon vicinato”. Durante l’incontro, il leader cinese ha sottolineato la necessità di superare le divergenze con i Paesi confinanti e di rafforzare i legami strategici, in un contesto regionale sempre più interdipenente con le trasformazioni dell’ordine globale.
La mossa arriva in un momento cruciale: dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca lo scorso 20 gennaio, la guerra commerciale tra Pechino e Washington si è riaccesa. Con dazi punitivi fino al 145% imposti sulle merci cinesi, gli Stati Uniti hanno rilanciato una politica protezionistica che la Cina conosce bene. Stavolta, tuttavia, la risposta di Pechino è stata immediata: dazi di ritorsione al 125%, restrizioni sull’export di terre rare, avvertimenti sui viaggi e una raffica di reclami presso la WTO. Nonostante le difficoltà economiche della Cina e le tensioni con gli Stati Uniti, l’Europa resta aperta al dialogo con Pechino. L’8 aprile, Ursula von der Leyen e il premier cinese hanno discusso telefonicamente della necessità di rafforzare un sistema commerciale equo e basato su regole condivise, in vista del vertice Cina-UE previsto per luglio.
Vietnam, Malesia e Cambogia a un bivio
Nel mentre, Pechino sposta l’attenzione verso sud, puntando su nuove alleanze e consolidando quelle storiche. Dal 14 al 18 aprile, Xi ha visitato Vietnam, Malesia e Cambogia, proponendo partenariati su commercio, logistica, intelligenza artificiale e transizione ecologica. L’offerta cinese si presenta come alternativa concreta a quella statunitense, soprattutto in un'epoca segnata da un “protezionismo dilagante e unilateralismo crescente”. L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), composta da dieci Paesi tra cui i tre visitati da Xi, è divenuta nel 2024 il primo partner commerciale della Cina, con un volume di scambi pari a mille miliardi di dollari. Attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), Pechino ha investito finora 165 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali nella regione, spostando parte della propria produzione per aggirare i dazi imposti da mercati ostili.
Vietnam, Malesia e Cambogia si trovano ora al centro di un difficile equilibrio geopolitico. Sebbene economicamente legati alla Cina, i tre Paesi dipendono fortemente anche dagli Stati Uniti per l’export. Nel 2024, gli USA hanno assorbito il 29,5% delle esportazioni vietnamite (pari a 119,5 miliardi di dollari), il 12% di quelle malesi (43,2 miliardi) e ben il 40% delle spedizioni cambogiane (circa 10 miliardi). L’annuncio di nuovi dazi americani, ha spinto Hanoi, Kuala Lumpur e Phnom Penh a cercare di rinegoziare i tassi imposti – rispettivamente del 46%, 24% e 49% – entro i 90 giorni di moratoria concessi da Trump, che ha escluso Pechino da qualsiasi trattativa.
Durante la tappa vietnamita, Xi ha firmato 45 intese bilaterali che spaziano dalla cooperazione ferroviaria al commercio agricolo, passando per ispezioni doganali e progetti comuni sull’intelligenza artificiale. Ma nonostante la crescente influenza cinese nell’area, i rapporti con alcuni attori regionali restano delicati. L’India, seppur impegnata in un lento disgelo sulle ataviche dispute di confine, mantiene una posizione cauta. Le Filippine, invece, si trovano su un crinale instabile, con rivendicazioni sovrapposte a quelle cinesi nel Mar Cinese Meridionale. La riprova che la partita tra Cina e Stati Uniti si gioca ora su più scacchieri e, nel Sud-est asiatico, Pechino, con la diplomazia del buon vicinato, prova a giocare d’anticipo.
Il nodo America Latina
Mentre le tensioni commerciali con gli Stati Uniti si intensificano, Pechino guarda sempre più a sud, consolidando la propria influenza in America Latina. Con una popolazione di oltre 650 milioni di persone e una crescente domanda di infrastrutture e tecnologie, la regione rappresenta un mercato strategico per la superpotenza asiatica, decisa a compensare le limitazioni imposte dal mercato statunitense.
Negli spazi lasciati scoperti da Washington, la Cina ha iniettato miliardi di dollari in prestiti per opere infrastrutturali che, a differenza degli aiuti occidentali, vengono presentati come privi di condizioni politiche. Tra i progetti finanziati figurano il porto di Chancay in Perù, ferrovie in Argentina, dighe in Ecuador, autostrade boliviane e impianti per energie rinnovabili in Cile, Brasile e Messico. L’obiettivo non si limita al rafforzamento dei collegamenti logistici tra oceani o alla creazione di nuove rotte commerciali transcontinentali: Pechino punta anche a rafforzare la propria immagine come partner affidabile, distante da logiche di dominio geopolitico. “I popoli dell’America Latina vogliono costruire il proprio destino, non essere il cortile di qualcun altro”, aveva dichiarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi lo scorso 7 marzo, riferendosi alla prossima riunione del Forum Cina-Celac, che Pechino ospiterà nei prossimi mesi.
La crescente assertività cinese nella regione è testimoniata anche dalla dura reazione di Pechino alla prevista cessione dei porti panamensi di Balboa e Cristobal – attualmente in gestione alla hongkonghese CK Hutchison – a un
consorzio guidato dalla statunitense BlackRock. Dall’annuncio dell’accordo, avvenuto il 4 marzo, la diplomazia cinese si è mobilitata su più fronti per ostacolare l’intesa, definendola un "atto di tradimento nazionale".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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