Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi

L'assurda sentenza di Palermo non dice che il centrodestra ha raggiunto i maggiori risultati sul campo. Scovati i latitanti più pericolosi

Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi

Una casupola bianca e un po’ malconcia in una masseria sulle colline di Montagna dei Cavalli, fuori Corleone: un braccio che si allunga per ritirare un pacco di biancheria lasciato da poco lì fuori. «Via, entriamo», dice la radio dei trenta poliziotti arrivati fin lassù, nel silenzio del martedì di aprile. Finisce così, dopo quarantatré anni, la latitanza di Bernardo Provenzano, Binnu u’ Tratturi. Era l’11 aprile 2006. Da tredici anni, dalla cattura di Totò Riina, Binnu era il numero uno di Cosa Nostra, il latitante più importante d’Italia.

Bisogna ripartire da quel fotogramma, dal braccio che si sporge, per capire quanto stia in piedi la teoria di un governo Berlusconi addomesticato ai voleri di Cosa Nostra, come sostengono trionfanti i pm di Palermo dopo la indiscutibile vittoria ottenuta nel processo per la presunta trattativa Stato- Mafia. Bisogna partire da quella foto, guardare le date, ragionare.

Provenzano viene arrestato nella fase finale della XIV legislatura. Ministro dell’Interno è Beppe Pisanu, capo del governo è Silvio Berlusconi: cioè l’uomo politico che secondo la tesi della Procura di Palermo, fatta propria dalla sentenza di ieri, avrebbe ricevuto «una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa Nostra». Una trattativa in tre fasi, l’ultima - secondo i pm - gestita in prima persona da Provenzano medesimo. Che però viene catturato e sepolto in un carcere di massima sicurezza. Ne uscirà solo dieci anni dopo, ormai demente, per andare a morire in una stanza d’ospedale.

Cosa era accaduto tra il 1993 della presunta trattativa e l’arresto di Provenzano? Si potrebbe ipotizzare che gli accordi di non belligeranza tra Stato e mafia avessero dispiegato un qualche effetto, almeno nella prima fase. Macché. Berlusconi va a Palazzo Chigi la prima volta il 10 maggio 1994, ci resta fino al 17 gennaio successivo; ministro dell’Interno è Roberto Maroni. Una manciata di mesi: ma nello stesso periodo finiscono in galera quasi cento latitanti per reati di mafia, criminali inseguiti da anni da mandati di cattura. Sono camorristi, ’ndranghetisti, ma il prezzo più alto lo paga Cosa Nostra, anche nelle sue propaggini internazionali: il 20 luglio 1994 a Long Island viene catturato dallo Sco, Paolo Lo Duca, latitante dal 1990, l’uomo di raccordo tra Cosa Nostra, i clan americani e il cartello di Medellin, un personaggio chiave nell’economia mafiosa. Tre mesi dopo a Palermo la Mobile arresta Francesco Inzerillo, cugino del boss ammazzato dai Corleonesi nel 1980, e interfaccia in Sicilia dei Gambino di New York. A novembre in Canada viene individuato e preso Salvatore Ferraro, successore di «Piddu » Madonia alla testa di Cosa Nostra a Caltanissetta. Si azzannano i tentacoli della Piovra oltreconfine.

Berlusconi torna al governo nel 2001, al Viminale vanno prima Scajola e poi Pisanu. E la musica non cambia. La «Lista dei Trenta», l’elenco dei latitanti più pericolosi, deve venire aggiornata di continuo, perché uno dopo l’altro i boss cadono nella rete. Il 16 aprile 2002 a Roccapalumba tocca a Antonino Giuffrè: è il sanguinario braccio destro di Provenzano, in fuga da nove anni, condannato a otto ergastoli. Appena arrestato si pente e comincia ad accusare Marcello Dell’Utri e Forza Italia. L’anno dopo, a luglio, finiscono le latitanze anche di Salvatore Rinella e Salvatore Sciarabba: sono gli uomini che proteggono Provenzano. Il cerchio intorno a «Binnu» si sta stringendo. Saranno questi, i «benefici di varia natura» di cui parla la Procura di Palermo?

Ad aprile 2006 tocca a Provenzano. Due settimane più tardi si vota, il centrodestra lascia Palazzo Chigi. Ci torna due anni dopo, l’8 maggio 2008. Premier è di nuovo Berlusconi, ministro degli Interni di nuovo Bobo Maroni. E la musica riprende. È il periodo d’oro della caccia ai boss, quello in cui Maroni a conti fatti potrà vantare l’arresto di 6.754 mafiosi, compresi ventotto della «Lista dei Trenta». Vengono smantellati santuari della criminalità organizzata in tutto il Mezzogiorno. La ’ndrangheta, che nel 2004 aveva visto la fine della interminabile latitanza di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradrittu» tra il 2008 e il 2009 vede finire in cella imprendibili di lungo corso come Francesco e Antonio Pelle; il 10 dicembre 2008 termina la fuga di Giuseppe De Stefano, «il top della ’ndrangheta» nelle parole del procuratore Giuseppe Pignatone. Il 17 novembre 2010 catturano nella sua Casal di Principe il superboss della camorra Antonio Iovine: «Abbiamo preso un re nel suo regno », commenta il procuratore antimafia Piero Grasso. «Questa è l’antimafia dei fatti», dice Maroni.

Ma è in Sicilia, nella terra dove il progetto della trattativa avrebbe preso forma e sostanza, che l’assedio alla criminalità mafiosa continua con i risultati maggiori. Matteo Messina Denaro non si trova, ma - come all’epoca di Provenzanopolizia e carabinieri fanno terra bruciata intorno al padrino in fuga. A settembre 2009 viene catturato Domenico Raccuglia, il collaboratore che gestisce la latitanza di Messina Denaro. A dicembre nello stesso giorno vengono presi a Palermo il giovane boss rampante Giovanni Nicchi e a Milano Gaetano «Tanino» Fidanzati, 78 anni, uno dei primi uomini d’onore a sbarcare al nord. Nel giugno successivo prendono Giuseppe Falsone, il capo di Cosa Nostra ad Agrigento: vive sotto falso nome a Marsiglia, la città dove Provenzano era riuscito a farsi operare alla prostata durante la latitanza.

E poi centinaia di arresti solo apparentemente minori, esponenti di seconda fila dei clan e anche semplici gregari: che però

costituiscono l’ossatura dei clan, la pianta organica senza la quale il potere dei boss diventa una scatola vuota. Sono risultati imponenti, figli del lavoro oscuro e tenace delle forze dell’ordine. E di una volontà politica.

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