Julian Assange è l'ossessione che l'America non può accantonare. Non ci saranno vincitori in questa storia, tutti alla fine pagheranno un prezzo. L'uomo che ha scardinato gli archivi segreti statunitensi, minacciando la sicurezza nazionale, è un sopravvissuto. È da più di due anni rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra. L'Alta Corte britannica ha ribaltato il giudizio di gennaio, quando si sottolineava il rischio di suicidio in caso di estradizione. Il suo destino è tornato in bilico. Washington pretende giustizia. Stella Moris, la compagna, ha rivelato che Julian ha avuto, dopo la sentenza, un lieve ictus. Il suo grido sta rimbalzando nel mondo: liberatelo subito. L'Australia, patria di Assange, per ora se ne lava le mani e non risponde agli appelli di chi considera il fondatore di Wikileaks un martire.
La realtà è che tutti vorrebbero cancellare quello che è successo. Dimenticare, spazzare via, guardare ad Assange come a un cinquantenne malato e inoffensivo, che ha sfidato il cuore profondo del potere ma ormai si è arreso. È uno sguardo che renderebbe le cose più semplici anche agli Stati Uniti. Non bisogna avere paura della pietas. Perché accanirsi? Perché chiedere il corpo di chi ormai non può farti più male? Assange è il simbolo della trasparenza. È il diritto di sapere quello che viene nascosto. È un eroe della stampa libera. L'America, si dice, non è la Cina e non può avere paura della verità. Non guardate la spia, ma il profeta di un'umanità senza segreti. È un discorso che sta mettendo in difficoltà Washington. Non a caso sono arrivate mezze promesse di non andare giù pesanti con le condanne.
Assange rischia 175 anni di carcere, ma si fa passare l'idea che non saranno più di cinque o sei. Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, fa sapere che il presidente Biden è un sostenitore della libertà di parola e di stampa. Non ci sarebbe neppure bisogno di specificarlo. È la Costituzione. È il principio sacro e inviolabile del mondo libero. Ricordarlo è un'ammissione di colpa. Allora appare chiaro che Assange per l'America sta diventando una questione irrisolta, perché si mischia con la stagione fragile della civiltà occidentale, dove i limiti tra libertà e sicurezza sono diventati instabili e ci sono domande a cui davvero è difficile rispondere. Fino a che punto può essere aperta una società aperta? Dove finisce la tolleranza? Non è facile trovare una risposta. L'Assange di oggi spinge alla misericordia. È quello di ieri difficile da definire.
Wikileaks nel 2010 pubblica oltre 91mila documenti top secret sulla missione in Afghanistan. È quello che in guerra si chiama spionaggio. È dare al nemico informazioni rilevanti. Questo è il principio su cui Washington non può fare marcia indietro. È una questione di giustizia. La storia di Assange va oltre l'uomo. È un nemico dell'America. Va catturato e giudicato. Se lo si lascia andare si certifica la debolezza di una nazione. La clemenza ci può essere solo dopo, come è successo con Chelsea Manning, la fonte di Assange, l'analista dell'intelligence condannata a 35 anni di prigione e poi graziata da Obama. Il perdono viene dopo. Questa è la promessa degli Stati Uniti e crederci è un atto di fiducia. Di certo c'è che per l'America quest'uomo resta un malfattore e non può sfuggire al giudizio. È per la maggioranza degli statunitensi un principio inderogabile, se salta questo cardine viene giù tutto. Assange è però anche uno specchio. I documenti che ha pubblicato sono il diario di una disfatta annunciata. È il cuore di tenebra della guerra in Afghanistan. È il racconto di come tutto stesse già andando in malora. Le truppe governative afghane erano un «esercito di carta».
Le scelte strategiche avrebbero trasformato quel territorio nel solito pantano da cui si esce a pezzi. In quelle carte c'era l'ombra del ritiro firmato proprio da Biden dieci anni dopo. Assange è la voce di un fallimento e comunque vada a finire questa storia, l'America ne uscirà sconfitta.
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