Non è la demolizione integrale che volevano le sinistre, ma una serie di colpi di piccone ben assestati. La prima grande riforma varata dal centrodestra, la legge sulla autonomia differenziata delle Regioni, esce malconcia dalla sentenza che la Corte Costituzionale si prepara ad emettere, e che la stessa Corte ha anticipato ieri pomeriggio con un comunicato. La legge che nel giugno scorso ha tradotto in pratica l' autonomia differenziata, così come previsto dalla Costituzione, viene dichiarata incostituzionale in una sfilza di articoli così lunga da modificarne sostanzialmente l'impianto e probabilmente l'efficacia. La Consulta rinvia in parte la palla al Parlamento perché siano le Camere a modificare altre parti della legge, avvisando che se non si adegueranno alla sua linea tornerà ad intervenire.
Ad impugnare davanti alla Corte la «legge Calderoli» (dal nome del primo firmatario, il ministro leghista delle Autonomie locali) erano state quattro regioni guidate dalla sinistra: Campania, Puglia, Toscana e Sardegna, le stesse che insieme all'Emilia Romagna hanno anche promosso referendum popolari contro la riforma. Nel loro ricorso, le regioni rosse chiedevano alla Consulta di abrogare completamente la legge, accusandola di essere interamente in contrasto con i principi di unità nazionale, o almeno di dichiararne incostituzionali una lunga serie di articoli. Martedì scorso davanti alla Corte si erano schierati in difesa della legge, insieme all'Avvocatura dello Stato, tre delle quattro regioni del Nord a guida moderata: Lombardia, Veneto e Piemonte. Davanti alla complessità dei temi sollevati, i giudici avevano annunciato che si sarebbero espressi «entro un mese».
Invece sono bastate quarantott'ore a comunicare una decisione che evidentemente era già maturata, nelle discussioni preventive tra i quattordici giudici costituzionali presieduti da Augusto Barbera, ex deputato del Pci/Pds per cinque legislature (ma relatore è stato un giudice moderato, Giovanni Petruzzelli). I giudici decisi ad affossare la legge avevano davanti a sé un ostacolo preciso: a prevedere forme di autonomia differenziata è la Costituzione stessa, con un articolo introdotto da un governo di unità nazionale e confermata a stragrande maggioranza da un referendum popolare. Per superare l'ostacolo, la Corte fornisce la sua interpretazione di quella norma: «deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana», ovvero dei «principi dell'unità della Repubblica e della solidarietà delle Regioni». Il passaggio cruciale è quello in cui la Corte stabilisce che Stato e regioni non possano accordarsi per il trasferimento a queste ultime di intere materie, e limita invece la devolution al passaggio solo di «specifiche funzioni amministrative o legislative» da determinarsi di volta in volta: esattamente il contrario di quanto la legge del centrodestra voleva realizzare. Da quel punto in avanti, è tutto un profluvio di azzeramenti e di «interpretazioni» di articoli. Via la norma che consente al governo di fissare i Lep, i livelli minimi di prestazione da garantire in tutte le regioni. Via quella che dava al governo la possibilità di modificare i trasferimenti di fondi pubblici alle Regioni in difficoltà. Il Parlamento potrà modificare a suo modo gli accordi tra governo e Regioni. Le Regioni non potranno contare, per gestire le nuove funzioni che prenderanno in carico, sugli stessi soldi spesi fino a quel momento dallo Stato, ma su fondi che andranno valutati di volta in volta. Con l'avviso che la Corte si riserva il diritto di abrogare anche le singole leggi di trasferimento se qualcuno (e la Consulta sembra quasi invitare a farlo) impugnerà anche quelle.
A rimanere in piedi, come si vede, non è molto.
E su quanto resta comunque in piedi pende ancora la scure dei referendum chiesti dalle Regioni rosse, che potrebbero venire azzerati, ma che le sinistre chiederanno probabilmente di tenere in ogni caso, per arrivare a quell'azzeramento totale che la Consulta ha negato.
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