È il passato che ritorna ma questa volta la storia potrebbe ripetersi in maniera molto diversa. Ieri il vicepresidente della Bce, lo spagnolo Luis de Guindos, ha confermato a Bloomberg che a luglio terminerà il programma di acquisti straordinario dei titoli di Stato di Eurolandia. La pubblicazione delle stime macroeconomiche dell'Eurotower a giugno darà la bussola per il successivo rialzo dei tassi. «Dalla prospettiva attuale, luglio è possibile e anche settembre, o è possibile più tardi», ha affermato de Guindos ribadendo che il compito principale della Bce è la stabilità dei prezzi, minata da un'inflazione dell'area euro che ha raggiunto il 7,4% a marzo.
Per l'Italia non è, ovviamente, una buona notizia. Con 2.763 miliardi di euro di debito pubblico, un rialzo dei tassi aumenterebbe, seppur di poco, gli oneri. Un'apposita sezione del Def, approvato l'altroieri dal Parlamento, è dedicata all'analisi della «sensitività» dei nostri Btp agli shock esogeni. Tutto il capitolo è impostato su toni rassicuranti: la vita media del debito si è allungata a 7,11 anni a fine 2021 e solo l'11,1% dello stock è indicizzato all'inflazione. Infine, un rialzo dei tassi di 100 punti base (ma per la Bce si stima che il primo ritocco sarà di 75 punti, portandoli da zero allo 0,75%) avrebbe un costo dello 0,13% del Pil nel primo anno e dello 0,31% nel secondo, rispettivamente 2 e 5,5 miliardi di euro. Un ordine di grandezza sul quale le varie maggioranze in genere si accapigliano per le bonus e mance varie durante le sessioni di bilancio. Molto più allarmante, invece, è una crisi del gas che comprometterebbe la crescita creando uno scenario di stagflazione, ossia ristagno del Pil e inflazione elevata.
Quello che dovrebbe preoccuparci veramente è il bias, l'orientamento dell'opinione pubblica e, quindi, della politica. La Bce non mette mano ai tassi al rialzo dal 2011, quando il numero uno era ancora Jean-Claude Trichet. Da sei anni l'asticella è ferma allo zero, gli acquisti anti-pandemia (inizialmente a 60 miliardi scesi a 20 miliardi mensili) per sostenere i Paesi ad alto debito ci hanno illuso che questa pacchia potesse durare per sempre. Del costo degli interessi sul debito nessuno parla più perché è sceso al 3% del Pil che sono sempre 60 miliardi ma non preoccupano come nel 2011 quando un'ottantina di miliardi ci appariva un'enormità. La riprova di questo disinteresse è nella risoluzione di maggioranza al Def: un catalogo delle spese per il cui finanziamento si invoca un nuovo scostamento di bilancio. L'obiettivo è accontentare tutto e tutti: imprese energivore, Superbonus 110%, pensioni anticipate, varie ed eventuali.
Finora Mario Draghi e Daniele Franco hanno fatto orecchie da mercante proprio per evitare un'ulteriore «lievitazione» del debito e continuarne il lento percorso di riduzione.
Lo dice pure il Def: in caso di shock «la policy dovrebbe reagire in modo adeguato», cioè con una stretta fiscale che compensi quella monetaria. Ecco, pensavamo di essere in un mondo diverso e invece ci siamo risvegliati come Bill Murray nel giorno della marmotta. Solo che potremmo essere in un giorno di fine 2011.
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