Il governo nel 2021 ha speso oltre un miliardo dei contribuenti, calmierando solo in minima parte la corsa impazzita dei prezzi delle auto, dopo averne già buttati 600 milioni l'anno prima sortendo lo stesso effetto assai marginale. È questa la lettura degli incentivi all'auto, alla luce dell'analisi sul Mercato a Valore diffusa dal Centro Studi Fleet&Mobility. Altro che stimolare i cittadini a cambiare auto per risollevare un'industria in ginocchio. Dai dati emerge più una di tela di Penelope, coi costruttori di giorno a stracciarsi le vesti per gli incentivi e di notte ad aumentare i listini e tagliare gli sconti. Nel 2021 il prezzo medio netto di un'auto nuova è passato da 22.400 a 24.300 euro, che sarebbero stati 25.400 senza un miliardo e cinquanta milioni di incentivi, spalmati ovviamente su tutti i volumi visto che si parla di valore medio. Giochetto fatto già l'anno prima: nel 2019 il valore medio netto era 21mila euro, salito nel 2020, sì durante la pandemia, a 22.400 che senza incentivi sarebbero stati 22.800.
Lo studio, alla 16esima edizione col contributo di Dataforce, Mapfre e Texa, mostra come l'impennata sia osservabile in tutti i canali, dai privati ai noleggi, solo un po' più marcata nelle società, dove sono mancati i km0, in genere su vetture economiche. Gli italiani che in due anni di pandemia arrivano a pagare per un'auto il 16% in più, il 21 senza l'obolo dello Stato, sono il segno di un cambiamento radicale.
Nel mondo di prima la sovraccapacità produttiva delle fabbriche premeva sui mercati affinché immatricolassero quanto più possibile. Allora giù col prezzo e coi km0 e limare i costi all'osso per aggiustare i margini. Tutto cambiato in poche settimane. Fabbriche e mercati chiusi, risparmi accumulati sui conti correnti, soldi pubblici mai visti prima e a pioggia, cassa integrazione a-go-go. Alla ripresa, la scarsità dei componenti ha fatto trovare i costruttori in una realtà sconosciuta: i clienti si raccomandavano per avere non lo sconto ma un'auto e i meno fortunati svuotavano i piazzali dell'usato. L'impulso nervoso è arrivato in un attimo ai quartier generali delle Case: potevano guadagnare di più vendendo meno macchine. Resterebbe da spiegare ai contribuenti a che servivano gli incentivi, ma ci arriviamo.
Di più, potevano prendere non due ma ben tre piccioni. Nel day-by-day la Commissione ancora multa i costruttori per le vendite che eccedono un certo limite di emissioni di CO2, con un furore ideologico inscalfibile dal Covid o dalle evidenze di Glasgow. Allora, dovendo scegliere cosa produrre, chi avrebbe resistito a dare priorità alle vetture a basse emissioni? Il problema è che costano molto di più delle altre. Dall'analisi dei prezzi viene fuori che il rapporto tra la performance a valore e quella a volume delle macchine ibride, che pesano oltre un terzo delle vendite, è 1,09, mentre per le termiche classiche siamo a 0,85/0,88. È qui che entra in gioco l'amico Stato, che tira fuori i soldi degli incentivi per evitare ai costruttori di tirar fuori i loro per pagare le multe. Chapeau! Ma, il debito? Vabbè, un'altra volta.
Il terzo piccione sono gli investimenti in prodotti elettrici e relative fabbriche. I vertici sanno che non sono così necessari come dicono, perché non ci sarà nessuno stop alle auto termiche. Ma devono dar conto agli analisti finanziari, che rispondono a mercati umorali e modaioli, con un orizzonte di mesi e non di anni, e che non puntano alla creazione o alla conservazione del valore industriale. Sicché vanno messi nei piani, salvo poi riequilibrare i conti aumentando la prima voce: i listini.
In conclusione, l'auto è un bene di massa e tale resterà.
È solo l'industria europea che sta lasciando la parte bassa della popolazione, che può spendere poco, alle auto usate oppure alle nuove di importazione cinese. Perché? È lì che è stata spinta per decenni dal partito anti-auto e dall'ambientalismo modaiolo e scollegato dai fatti. I sindacati? Fanno parte del problema, come al solito.
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