Usano i bambini come vittime, usano i bambini come assassini. Nei computer di due arabi arrestati ieri a Milano - normali, lavoratori, bravi padri di famiglia e fanatici del massacro in nome di Allah - saltano fuori immagini che lasciano sconvolti persino i poliziotti della Digos, abituati a tutto. Due prigionieri, due povericristi siriani costretti ad arruolarsi e fatti prigionieri dall'Isis: legati, in ginocchio, dicono nome e cognome, «mi chiamo Abdul Rahman Ahmad Al-Khalaf...». Il bambino gli spara in testa, Abdul cade, il bambino gli spara ancora, Abdul respira ancora. Il bambino-giustiziere lo finisce.
Sono questi i miti di riferimento, i modelli di Alaa Refaei e di Gharib Nosair, egiziani di nascita, trapiantati alle porte di Milano, tra Sesto San Giovanni e Monza, muratori seri e sgobboni, due tra le migliaia che mandano avanti i cantieri della metropoli lombarda. Non andavano neanche in moschea, Alaa e Gharib, non si facevano notare nei circoli estremisti. L'Italia li aveva accolti, ad Alaa aveva dato anche la cittadinanza. Hanno ringraziato trasformandosi in propagandisti della jihad più feroce, e giurando fedeltà all'Isis, lo Stato islamico, quello che sgozza gli ostaggi e li brucia in diretta web.
Del web erano frequentatori fissi, quasi ossessivi. Alle sei del mattino, prima di uscire per il cantiere, o alle undici di sera, prima di andare a dormire, si collegavano ai gruppi sui social. Con i nomi di «Alaa Abdalla» e «gharim.hassan.752» spargevano like, postavano, rilanciavano la propaganda dei tagliagole. Nelle chat, le minacce anche al capo del governo italiano: «sappiamo benissimo come zittirli e fermarli al momento giusto viviamo con loro da banditi», scrive uno del gruppo il 3 ottobre sotto la foto di Giorgia Meloni con Silvio Berlusconi.
Alaa e Gharib sapevano di essere sotto inchiesta già da dicembre, quando la Digos era arrivata a casa loro a sequestrare i computer e i telefoni, dove sono emerse conferme esplicite di quanto due mesi di trojan avevano fatto intuire. Ieri mattina vengono arrestati per terrorismo internazionale e istigazione a delinquere. Gli agenti entrano nelle loro case decorose, quasi piccolo borghesi. Nella casa di Alaa, la stanza con i letti a castello dei quattro figli sembra la stanza di quattro ragazzini italiani qualunque: ma nei disegni appesi ai muri non c'è la mamma, non ci sono fiori o alberi, ma solo bandiere palestinesi, e - tracciato con la grafia incerta dei bambini - «Free Palestine». Gharib aveva indottrinato Alaa, e Alaa - spiegano ieri gli inquirenti - «indottrinava il figlio adolescente».
Erano nel mirino da due anni, da quando la Polizia postale di Perugia si era imbattuta nei loro nickname scrutando i social dell'Islam più radicale, come «Taha'ah al-khair» e «Fursaan Media».
L'inchiesta è arrivata a Milano, affidata al pm Alessandro Gobbis e coordinata dal procuratore Marcello Viola. Saltano fuori, legate alle chat dei fanatici dell'Isis, utenze europee, americane, mediorientali. E due utenze milanesi, le utenze dei due amici che l'Italia aveva accolto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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