Dopo il Mattarella bis, adesso tocca alla Gioconda ter. Il luogo dell'elezione, questa volta virtuale, anzi ipotetica, anzi sub iudice, anzi forse-sembra-pare, è lo stesso: la Camera dei Deputati. Però non sopra e in favore di telecamera, fra gli scranni riservati alle onorevoli terga, bensì sotto e al buio, in un deposito. Insomma, in cantina.
La Gioconda romana detta «Torlonia», ora promossa per acclamazione, dopo la pulitura e il restauro, al rango di Gioconda ter, va a sommarsi a quella parigina universalmente nota e a quella di Isleworth, cioè la Gioconda inglese, importata sul finire del Settecento da un collezionista e acquistata nel 1914 dall'artista e mercante d'arte Hugh Blaker, il quale viveva appunto in quella cittadina del Middlesex. Ora, immaginate lo scoramento dei francesi, nuovamente colpiti nell'orgoglio e nella grandeur. Non bastava la Gioconda british (fra l'altro più giovincella nell'aspetto e della quale, detto per inciso, esiste una sorta di expertise indiretto mica male, considerando la firma dell'esperto: Raffaello Sanzio, autore, intorno al 1503, di una sua copia disegnata). Adesso ci si mettono gli odiati cugini italiani, a insidiare il primato planetario dell'opera che Leonardo portò con sé Oltralpe e che dalla sua sala del Louvre osserva, compiaciuta e sarcastica, chi a sua volta la osserva, estatico e adorante...
Per il momento, a Roma si preferisce mantenere un basso profilo, si parla di «scuola», di «collaborazione» del genio al lavoro dei suoi fedeli ragazzi di bottega, di «copia che aspira a replicare diligentemente il suo modello». E Vittorio Sgarbi da parte sua sbotta: «È soltanto una modesta tela da arredamento!».
Ma sappiamo bene come funziona il giro del fumo quando si tratta dell'inarrivabile Leo: è sufficiente accostare il suo nome a qualcosa, fosse anche il più insulso scarabocchio, e monta immediatamente l'onda mediatica che travolge il mondo intero. Sicché presumiamo che a Parigi adesso non tiri una bell'aria, anche perché in questo caso, come si dice, c'è della polpa, indipendentemente da quanti polpastrelli il Maestro vi abbia messo. Infatti la terza Gioconda veniva citata, ancora nell'Ottocento, in un commento all'edizione del 1851 delle Vite del Vasari, insieme con altre copie derivate dal capolavoro leonardesco, fornendo un elenco corposo: «in Firenze in casa Mozzi; nel Museo di Madrid; nella Villa Sommariva sul lago di Como; presso il Torlonia a Roma; a Londra presso Abramo Hume, e presso Woodburn; e nell'Ermitage di Pietroburgo e finalmente un'altra copia nella Pinacoteca di Monaco» .
E, dopo il restauro, la Gioconda romana mostra di avere la stessa età e le stesse correzioni nel disegno di quella francese.
Inoltre i restauratori Antonio e Maria Forcellino parlano di velature di una «trasparenza che echeggia in maniera puntuale la tecnica esecutiva di Leonardo operata nel dipinto del Louvre». Quindi, occorre parafrasare un'altra bellezza francese, Catherine Deneuve: «Oui, je suis Monna Lisà».
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