Boicottare, anzi di più: cancellare definitivamente i profili Facebook. L'appello alla fuga diventa virale in poche ore, una sorta di legge del contrappasso per il social network che ha fatto della condivisione la sua fortuna, con un record di oltre due miliardi di «amici» connessi al mese, più di un quarto della popolazione mondiale. Eppure tira aria di rivolta contro il social che ci ha reso tutti meno social e che in 15 anni ha trasformato la piazza reale in una piazza virtuale, riempiendoci di «amici» sconosciuti, di opinioni à la carte elargite dai tuttologi della Rete e di leoni da tastiera, tanto coraggiosi da saper odiare solo nascosti dietro a uno schermo.
La chiamata alla ribellione si fa collettiva soprattutto dopo la notizia che a unirsi al coro di disapprovazione è il co-fondatore di WhatsApp, Brian Acton, che tre anni prima ha venduto a Facebook la sua azienda per 19 miliardi di dollari: «È il momento. #DeleteFacebook», cancellate i vostri account, rilancia via Twitter l'imprenditore che proprio pochi mesi fa ha voltato le spalle all'azienda e lasciato Fb. Il messaggio dà man forte all'esercito di utenti infuriati dopo la scoperta che la società fondata da Mark Zuckerberg ha ceduto i dati di 50 milioni di utenti alla Cambridge Analytica, una società che li ha usati e passati a terzi per fare anche propaganda politica e influenzare l'esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti e del referendum sulla Brexit in Gran Bretagna.
Il messaggio di Acton, involontariamente, sottolinea un altro dei paradossi di questa storia: l'annuncio per boicottare il social network arriva da un altro social network, quel Twitter finito pure nel mirino per la circolazione di fake news e la raccolta di dati personali dei suoi utenti. Così qualcuno si spinge oltre e rivolgendosi al popolo di Internet avverte: «Dovreste cancellare anche Instagram», che è l'altro social comprato da Facebook nel 2012.
Intrecci, contraddizioni e aria di rivolta in una storia imprenditoriale e mediatica che potrebbe ora schiantarsi sull'onda dello scandalo della privacy, la merce più preziosa e più esposta in questo tempo di condivisioni, new media e social media. La bufera Cambridge Analytica rischia di essere l'inizio della fine per Facebook, il luogo diventato, in poco meno di 15 anni, un'enciclopedia del nostro tempo, il posto eletto dal grande popolo della Rete per una sorta di analisi collettiva.
Qui sono finite negli anni immagini imbarazzanti e persino compromettenti, annunci choc come quelli degli stragisti delle scuole statunitensi o di chi ha deciso di raccontare su una bacheca le proprie gioie e i propri guai, malattie comprese. Qui qualcuno ha annunciato suicidi e omicidi e qualcun altro ha indicato nomi e dettagli circostanziati sui propri killer, affidando a un post l'identikit dell'assassino o il proprio testamento spirituale. Qui da anni si dibatte e si litiga tanto quanto si equivoca. Si combattono solitudini mentre si alimentano solitudini. In un contenitore dove c'è più reale di quanto appaia virtuale. Non è un caso che aziende e cacciatori di teste abbiano capito che nella scatola Facebook si trovano le informazioni più precise e puntuali su eventuali futuri dipendenti ma soprattutto su certi e inequivocabili scarti da ufficio, selezionati dai profili prima che da un colloquio vis-à-vis.
Ed è qui - ironia della sorte - che c'era probabilmente già scritto anche il destino del social network concepito dal giovane studente Zuckerberg.
Perché fu lui per primo, in quel lontano 2003, ad hackerare i database degli altri universitari per estrarne nomi e fotografie e creare il sito che esordì a Harvard con le foto (rubate) degli studenti del college. Zuckerberg fu accusato di infrazione della sicurezza e violazione della privacy. E il film ora si ripete. Ma rischia di trasformarsi in incubo per il miliardario Zuck.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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