La realtà, consueta quanto attesa, ci è già stata sbattuta in faccia da Germania e Norvegia. Nonostante la determinazione del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e le apparenti attenzioni riservate da Bruxelles a Giorgia Meloni, l'attitudine europea non cambia. Alla lunga nessuno dei 26 partner si accollerà mai i migranti irregolari che, complici le Ong, possono venire comodamente scaricati nei nostri porti. E come insegnano i disattesi accordi di Malta sui ricollocamenti anche la Francia, oggi apparentemente più malleabile, tornerà presto a voltarci le spalle.
Dunque è chiaro, la battaglia per il contenimento degli sbarchi non si può combattere in un Canale di Sicilia trasformato dall'indifferenza europea nel passaggio obbligato verso le nostre coste. Né, tantomeno, su un bagnasciuga dove la magistratura di sinistra attende soltanto di far carne di porco delle regole sull'accoglienza dettate dal Viminale. Anche perché, e lo dimostrano le più recenti statistiche, i migranti traghettati dalle Ong sono solo una parte di quelli raccolti dalla Guardia costiera nella nostra fetta di Mediterraneo. Dunque l'Italia deve tornare ad operare quanto prima su quelle coste e su quei retroterra libici che restano il terminale delle rotte migratorie dall'Africa sub-sahariana e il regno dei trafficanti di uomini. Il problema è come farlo.
Quando cinque anni fa Marco Minniti avviò la missione di appoggio alla Guardia Costiera di Tripoli che ci garantì, almeno fino al 2019, il contenimento dei flussi migratori, eravamo l'indiscussa potenza di riferimento della nostra ex-colonia. Oggi siamo soltanto una potenza di terz'ordine succube di una Turchia trasformatasi nel vero demiurgo dei destini della Tripolitania. E in Cirenaica le cose vanno anche peggio, visto che Egitto e Russia hanno ancora meno interesse ad arginare le partenze dei barconi pronti a salpare dai porti controllati dal generale Haftar.
In tutto questo non scordiamo però che il primo viaggio all'estero di Mario Draghi, ai primi d'aprile del 2021, fu proprio a Tripoli. Dietro quel viaggio si celava la promessa dell'amministrazione Biden, preoccupata per la presenza russa in Cirenaica e l'influenza turca a Tripoli, di restituirci il ruolo di potenza di riferimento nell'ex colonia. Un ruolo da riconquistare guidando una missione di ricostruzione finanziata dall'Unione Europea e progettata anche allo scopo di ridimensionare il ruolo di Mosca e Ankara. Il fallimento delle elezioni presidenziali, il conseguente naufragio della riunificazione libica e il successivo scoppio della guerra in Ucraina hanno mandato all'aria tutti quei progetti.
Ma ora l'Italia vanta un doppio credito. Nonostante le durissime conseguenze economiche patite in seguito all'eliminazione di Gheddafi e al sostegno a Kiev, non ha mai rinnegato i propri impegni atlantici. Dunque invece di sperare in una disinteressata, quanto improbabile, solidarietà europea sul fronte dei migranti, il nuovo governo dovrebbe oggi guardare alla Libia e alle pregresse promesse di Washington.
La Casa Bianca è la prima, infatti, a valutare con estrema preoccupazione le mosse di un inaffidabile alleato turco e di un nemico russo decisi a spartirsi quella Libia e quel Mediterraneo dai quali passano il controllo dei flussi migratori e la possibilità di contenerli.
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