Per tutti noi, e per gran parte dei lettori, Paolo Granzotto era una specie di icona: non solo era uno degli ultimi fondatori del nostro Giornale ancora attivi, non solo era uno dei più autorevoli (anche se spesso critico) biografi di Indro Montanelli, ma era anche uno di quelli che, nella sua quotidiana rubrica "L'angolo" interpretava meglio lo spirito originario del Giornale caustico, coraggioso, politicamente scorretto e soprattutto, come dice la nostra testata, fuori dal coro. Esattamente come il suo maestro e mentore, nonostante i 76 anni e molti acciacchi che lo affliggevano da tempo, ha continuato a lavorare, sette giorni la settimana, fin quasi all'ultimo giorno, affrontando i temi di attualità con la penna intinta spesso e volentieri nell'acido solforico.
Per inquadrare meglio il pensiero di Paolo Granzotto, ricorderò ai lettori i titoli di alcuni dei suoi ultimi articoli sugli argomenti che animano tutti i giorni le nostre conversazioni: «Emergenza emigrati: ci siamo rovinati da soli»; «Vanno soccorsi in mare e poi riportati a casa: in Europa fanno così»; «Il diritto di difendersi a mano armata»; «E adesso chi paga per Cloe, uccisa in casa da ladri romeni?»; «Spiegate alla Boldrini che l'inferno di periferia è figlio del suo buonismo». Proprio la presidente della Camera ribattezzata «la Boldrina» o, alla piemontese, «madamin Boldrini» era diventata da qualche anno uno dei suoi bersagli preferiti, con frecciate che mandavano i (pochi) estimatori della signora su tutte le furie. Un'altra delle sue bestie nere era l'Unione europea, in cui non ha mai creduto e da cui riteneva che l'Italia dovesse sganciarsi (ed una delle poche cose su cui non eravamo d'accordo).
Prima di concludere la sua carriera con "L'angolo", Paolo ha fatto molte altre cose: oltre alla biografia di Indro (Montanelli, il Mulino, 2004), ha scritto vari libri di successo, come Perché parliamo italiano. Breve storia delle parole. Repertorio dei dubbi linguistici e degli errori comuni (Le Lettere, 1998), Il piacere dell'italiano. L'avventura delle parole e Il piacere dell'italiano. L'avventura della nostra lingua (entrambi pubblicati da Scipione, 2001) - la difesa della nostra lingua era uno dei suoi pallini -, il romanzo Novecentonovantanove (Mondadori, 1997), e poi altri titoli di successo come Il romanzo di Achille (Rizzoli, 1991), Ulisse (Rizzoli, 1988) e le Cronache della guerra di Troia (Rizzoli, 1986); ha fatto il cronista, l'inviato, l'editorialista e, sul finire dell'era Montanelli (del quale non ha peraltro esitato a sostenere che, a causa di una certa solitudine intellettuale e delle periodiche crisi di depressione, aveva poca attitudine a dirigere un giornale), anche il vice-direttore, insieme con il sottoscritto e con Michele Sarcina.
Fu in quel periodo che ci conoscemmo meglio, non soltanto perché le nostre stanze erano vicine, ma anche perché ci trovammo, un po' inaspettatamente, a fronteggiare insieme la più grande e dolorosa crisi che questo giornale abbia conosciuto: la fuoruscita di Montanelli per contrasti con Silvio Berlusconi, del quale non intendeva condividere l'avventura politica.
Fu un momento drammatico. Oltre al direttore, se ne andarono il condirettore Federico Orlando (poi finito a fare il deputato dell'Ulivo...), Sarcina, il caporedattore Bacialli, altri 38 giornalisti e un buon numero di collaboratori. Montanelli avrebbe voluto che anche Paolo ed io lo seguissimo alla Voce, ma dopo un colloquio a momenti tempestoso rifiutammo e restammo a presiedere il forte fino all'arrivo di Vittorio Feltri. Ricordo come se fosse adesso una frase di Paolo per spiegare a Montanelli la nostra decisione: «Indro - disse - abbiamo lottato per una vita perché in Italia, come in tutti gli altri Paesi d'Europa, potesse nascere un governo di centro-destra. E ora che questa possibilità sta per realizzarsi, noi dovremmo scendere dalla nave?». Così restammo, con la redazione quasi dimezzata, a presidiare il forte. Ogni mattina ci guardavamo in faccia e ci domandavamo come ce la saremmo cavata.
Paolo, figlio di quel Gianni che nella generazione precedente è stato uno dei più illustri e capaci esponenti del mondo dell'informazione e uno dei cinque «padri» del Giornale, è morto dopo ben 51 anni di professionismo, una vita.
Da tempo si era trasferito a Torino, dove ha anche diretto per un certo periodo Il Giornale del Piemonte, appendice subalpina del nostro quotidiano, ma dove soprattutto ha trovato una nuova famiglia e una serenità che non gli conoscevo. Perderlo è molto triste, ma avere lavorato al suo fianco è stato un grande piacere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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