C'è stato ma si è visto poco. E comunque non si può dire. Se ce ne saranno altri è ancora da vedere. C'è un po' di mistero e tanta strategia nell'attacco tanto annunciato e alla fine arrivato in tono decisamente minore da parte di Israele contro l'Iran. La notte scorsa un'incursione di droni ha colpito la regione di Isfahan, dove si trovano diversi obiettivi militari fra i quali l'impianto di arricchimento dell'uranio. Tutti sanno che a condurre l'attacco è stato Israele ma, a parte alcune voci stonate che hanno sentito la necessità di commentare il blitz, dallo Stato ebraico si alzata una cortina di silenzio strategico. Così come da Teheran, invece dell'immediata e violenta risposta promessa, sono arrivate dichiarazioni prudenti insieme alle consuete minacce di facciata. Un sostanziale nulla di fatto, per ora, senza vincitori ma che di fatto non scontenta nessuno.
Da Israele filtra un ufficioso «occhio per occhio, dente per dente», ma senza un'assunzione di responsabilità per l'attacco. Di contro, il comandante in capo dell'esercito iraniano Abdolrahim Mousavi, arriva a definire «assurdi» i rapporti che attribuiscono ad Israele l'attacco, in uno stranamente concorde gioco a chi getta più acqua sul fuoco che fa sperare in una non volontà di arrivare davvero a un'escalation. Teheran parla di non meglio precisati «oggetti volanti» che sono stati abbattuti e di attacco respinto senza danni anche se il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian, pur mantenendo la linea ufficiale, anche per salvare le apparenze torna a minacciare. «Se il regime di Israele commettesse ancora volta un grave errore la nostra risposta sarà decisiva, definitiva e per loro un rammarico - ha detto - La nostra prossima risposta sarà immediata e ai massimi livelli nel caso in cui il regime di Israele si imbarchi nuovamente in avventurismo e intraprenda azioni contro gli interessi dell'Iran», confermando che quello precedente era di fatto un penultimatum. A provare a rovinare i piani di Israele di tenere un basso profilo, arriva però il solito Ben Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale e falco estremista del governo israeliano che in un post sui social ha solamente scritto «moscio», riferendosi evidentemente all'attacco condotto da Israele. Un post che ha fatto infuriare il leader dell'opposizione israeliana Yair Lapid. «Mai prima d'ora un ministro del gabinetto di sicurezza aveva arrecato un danno così grave alla sicurezza del Paese, alla sua immagine e al suo status internazionale. Con una sola parola, Ben Gvir è riuscito a deridere e svergognare Israele, da Teheran a Washington».
Quel che è certo è che il giorno dell'attacco non è stato casuale, quello del compleanno della guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei. Così come non è stata casuale la scelta del sito di Isfahan. La zona ospita un'importante base aerea dell'esercito iraniano, che da tempo ospita i caccia (di fabbricazione americana) F-14 Tomcat, acquistati prima della rivoluzione islamica del 1979. Ma soprattutto, è lo snodo principale del programma nucleare iraniano, dove gli ayatollah hanno costruito anche quello che è stato ribattezzato il «bunker fine del mondo», una sorta di base semi segreta da cui guidare in sicurezza un eventuale conflitto. Che per il momento non sembra palesarsi all'orizzonte.
Se da Tel Aviv resta un silenzio strategico, Washington conferma di non aver avuto nessun ruolo nel blitz, ulteriore elemento utile ad abbassare la tensione. Che porta invece i leader iraniani a festeggiare quello che è al tempo stesso uno scampato pericolo e una piccola vittoria. «La falsa grandezza dei sionisti è stata distrutta», ha detto il comandante delle forze terrestri Kioumars Heydari. «Il regime sionista ha dimostrato di aver accettato la sconfitta», ha spiegato invece il portavoce del parlamento Seyyed Nizamuddin Mousavi.
Mehdi Toghyani, membro del parlamento iraniano di Isfahan, ha parlato invece di «tentativo disperato di Israele che è fallito». Dialettica, accuse, minacce e provocazioni. Se si resta in questo ambito, infondo, può andar bene a tutti.
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