Dovrete ammazzare anche me. Tre giorni dopo il suo primo, toccante ma lucidissimo discorso a Monaco, Yulia Navalnaya conferma che il testimone della battaglia politica di suo marito Alexei è nelle sue mani. La lotta per costruire una Russia libera dal regime di Vladimir Putin continuerà. La guiderà una donna forte e determinata, che in un video di nove minuti non nasconde la rabbia verso gli assassini del suo uomo e padre dei suoi figli, ma la trasforma in carburante per una sfida «molto più disperata e fiera di prima». Lo stile sarà lo stesso. Se Alexei Navalny lavorava sempre sui fatti, documentando fin nei dettagli la corruzione e l'opulenza dei «disonesti e ladri» che dominano nella Russia di Putin, Yulia non farà niente di meno. E comincerà, lo ha promesso, rivelando presto «nomi e volti di chi ha commesso questo omicidio e come lo ha commesso». Poi, lo ha giurato a suo marito che per questo ha dato la vita, verrà ripresa la battaglia «contro quelli che hanno osato uccidere il nostro futuro». Sarà davvero una sfida disperata. All'ingresso del gulag artico dove Navalny è stato ucciso - verosimilmente con l'agente nervino novichok - c'è una cancellata con una scritta beffarda: «La felicità non è molto lontana». La somiglianza con l'ignobile «Il lavoro rende liberi» che sovrastava l'ingresso del lager nazista di Auschwitz non potrebbe essere più sinistra, e fa ben capire contro chi debba combattere la coraggiosa minoranza di russi che anela alla libertà. Forse è un bene che sia una donna a mettersi alla sua testa. In un Paese dove un milione di giovani uomini hanno preferito la fuga all'estero all'arruolamento per la guerra in Ucraina così però anche disertando dalla lotta per la libertà nel loro Paese sono le donne a tenere la testa alta. Lo fanno vedove e compagne degli uomini spediti al fronte, che senza paura protestano fin sotto le mura del Cremlino. Lo ha fatto ieri Evgenija Kara-Murza - moglie dell'oppositore del regime Vladimir condannato a 25 anni di carcere duro e che sta andando incontro allo stesso tragico destino di Navalny - schierandosi al fianco di Yulia Navalnaya con un coraggioso discorso.
Appena al di là del confine, in Bielorussia, un'altra donna senza paura, Svetlana Tikhanovskaya, ha raccolto tre anni fa la bandiera di suo marito, il candidato presidente che aveva sfidato il dittatore vassallo di Putin, Aleksandr Lukashenko, ed era stato per questo gettato in carcere. Svetlana ha abbracciato Yulia dopo la notizia della morte di Aleksei: «Non so nemmeno se Serhej sia ancora vivo, proviamo lo stesso dolore». E hanno adesso la stessa responsabilità.
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