Morto Furio Colombo, il comunista liberal amico di Usa e Agnelli

Furio Colombo entrò il Rai nel 1954, lavorò per Olivetti e Fiat. Fondatore del "Fatto" fino alla lite sull'Ucraina

Morto Furio Colombo, il comunista liberal amico di Usa e Agnelli
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Liberal di sinistra, comunista pro Israele e intimo di Gianni Agnelli, esegeta degli Stati Uniti, kennediano e obamiano, marxista e democratico a giorni alterni, la penna rossa intinta nell'odio sin da quando si firmava Marc Saudade. A 94 anni compiuti Furio Colombo si congeda in modo quasi inaspettato. Il suo libro apocalittico La fine di Israele (Baldini + Castoldi) uscirà postumo, proprio nella Giornata della Memoria per la cui istituzione tanto si è battuto da parlamentare.

Istrionico e fuori dagli schemi, ambiguo e camaleontico, Colombo è stato un irrequieto, a caccia di nemici e sempre generoso con gli amici, quelli seduti dalla parte giusta della Storia, naturalmente. Classe 1931, nato a Capodanno a Chatillona (Aosta), avvocato mancato perché folgorato come San Paolo: entra in Rai con il concorso del 1954, la passionaccia dal 1967 lo porta in giro per il mondo, che sia per i Beatles in India o a Saigon con l'esercito Usa. Lavora per Stampa, Repubblica e l'Espresso, collabora con il New York Times, nel 2000 riapre e rilancia l'Unità con Antonio Padellaro e Marco Travaglio, assieme a cui fonda il Fatto quotidiano nel 2009 da cui fugge tre anni fa per l'infatuazione putiniana del suo direttore Marco Travaglio («Non voglio essere complice della verità distorta sull'Ucraina»). Ultimo o quasi superstite del gruppo dei 63 con Umberto Eco, Gianni Vattimo e Piero Angela, in mezzo direzioni prestigiose a Nuovi Argomenti di Alberto Moravia e New York Review of Books, cattedre al Dams di Bologna e Oltreoceano per Columbia, Berkeley e New York University dopo la presidenza dell'Istituto per la cultura italiana della Grande Mela. Grand'Ufficiale al merito, era sopravvissuto a un incidente aereo nel 1991 e soprattutto alla metamorfosi del Pci diventato Pds, Ds e Ulivo, il più disobbediente dei suoi con oltre 630 voti «ribelli» contro un partito che tentò (invano) di scalare alle Primarie nel 2007, un cavillo lo portò dall'eretico Marco Pannella.

Da manager è stato ambasciatore di Olivetti e Fiat presso l'establishment economico culturale a stelle e strisce, un amore tradito per conquistarsi lo scranno coi «comunisti». Ciò che abbiamo imparato (male) sugli Stati Uniti troppo lontani, da Kennedy al Watergate, lo dobbiamo a lui. Gli Usa erano «il modello libero e democratico», merito del «loro pragmatismo che fa cose che i governi non fanno», non certo il clichè immaginario di un Paese «autore di tutti i complotti», a meno che non fosse l'America «sconsacrata dai Bush e da Trump» che «spadroneggiano e intimoriscono chi non accetta il loro volto imperialista».

Amava la sua Israele «occupata e disperata» tanto da perdonarle tutto, anche quel «cattivone» di Ariel Sharon. C'è il suo zampino nei soliti misteri, dai cui veleni è rimasto immune o quasi. Fu lui per la Stampa di Arrigo Levi a raccogliere l'intervista-testamento di Pier Paolo Pasolini («Siamo tutti in pericolo»), pur essendo interprete perfetto di quell'omologazione culturale che Pasolini combatteva, la sua morte lo vide primo cronista assieme a Oriana Fallaci. Da cattivo maestro firmò nel 1971 la Lettera aperta dell'Espresso che costò la vita al commissario Luigi Calabresi. Dalla poltrone in pelle yankee al 27° piano di un palazzo a Park Avenue e lo stipendio a sette zeri concionava di precariato e salari, democrazie e libertà («il potere non è più dove si immagina che sia»), di vite imperfette «per riappropriarci dell'umanità», contro «le promesse di un mondo perfetto che tecnologia e ideologie non hanno mantenuto».

Oggi l'ultimo saluto al cimitero Acattolico di Roma con la moglie, la scrittrice Alice Oxman e la figlia Daria.

Bello il cameo del 1972 ne Il caso Mattei di Francesco Rosi come assistente di Gian Maria Volontè, lo scazzo epico con Bruno Vespa becchino della morte di Fabrizio Quattrocchi in diretta tv, il mantra Enzo Biagiiiii, Enzo Biagiiiii per l'amico «esiliato» da Viale Mazzini dal «golpista» Silvio Berlusconi, a cui riservò ettolitri di vetriolo nel Libro nero della democrazia del 2001. Una furia, Furio.

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