Nel Transatlantico di Montecitorio si parla delle elezioni in Abruzzo, degli ultimi sondaggi che assegnano dai due ai quattro punti in più al candidato del centrodestra sull'avversario. Nel mondo, invece, si parla solo del voto americano che potrebbe tra otto mesi cambiare lo scenario internazionale: la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato legittima la candidatura di Trump; di fatto se prima Donald il rosso aveva il 30% di possibilità di diventare il prossimo inquilino della Casa Bianca, ora tenendo conto degli ultimi sondaggi almeno il 55%. Un'eventualità che potrebbe modificare il volto, i riferimenti, le logiche della politica globale.
L'unico che lo ha capito in Italia e che si sta attrezzando è Giuseppe Conte. Una tattica d'attesa che lo porta ad avere un atteggiamento di non interventismo sotto la bandiera del pacifismo sull'Ucraina, sulla Nato e sul Mar Rosso. Il leader 5stelle è pronto ad adeguarsi alla tradizionale politica di Trump, quella rappresentata dall'espressione America first che prevede un atteggiamento più isolazionista degli Stati Uniti sia nel rapporto con l'Europa, sia nell'Alleanza atlantica, nonché una visione diversa rispetto a Biden su come trattare con Putin. Tant'è che ieri il capogruppo dei 5stelle alla Camera, Ricciardi, ha rimarcato che loro non andranno mai «a prendere ordini da Biden» come ha fatto la Meloni e che è un'enormità paragonare Putin ad Hitler.
Il pensiero che c'è dietro queste parole è lo stesso Giuseppe Conte a spiegarlo alla buvette di Montecitorio. «Qui fra sei mesi con Trump presidente - osserva l'ex premier, il Giuseppi di Donald - c'è la possibilità che cambi tutto. E allora questi turbo-atlantisti di casa nostra che faranno? Non possono pensare che se c'è Trump alla Casa Bianca non saremo più amici degli Stati Uniti. Semmai dovremo registrare la nostra politica estera». E già Donald il rosso è l'asso nella manica che Conte pensa di avere per prendersi la guida del cosiddetto «campo giusto» (nel dizionario Schlein «campo largo») e per sognare il ritorno a Palazzo Chigi. È la stessa logica che coltiva, magari con più meno ambizioni, Matteo Salvini nel centrodestra. «Io tifo per Trump - dice senza peli sulla lingua il vicesegretario leghista Crippa -: se vince per noi è una boccata d'ossigeno».
Il problema, quindi, semmai è degli altri, a sinistra come a destra, che già ora - non domani - si trovano di fronte ad un bivio. O anche loro assumono la modalità «attesa», pronti ad adeguarsi nell'ipotesi che Trump sia eletto. Oppure debbono optare con rapidità e decisione per la carta europea. Quella che hanno già scelto gli altri Paesi che puntano a rafforzare il sistema di difesa dell'Unione in tempi brevi: 1,5 miliardi subito all'industria degli armamenti e un fondo di 100 miliardi in prospettiva. Tanto per cominciare. Insomma, l'idea di Macron di un'Europa che sia capace di stare in piedi anche di fronte ad un atteggiamento più distaccato di Washington sul piano della difesa per poter sviluppare con maggior efficacia una sua politica estera.
Sono due linee - quella filotrumpiana e quella che guarda all'Europa - molto distanti che in questa fase di attesa condizioneranno non poco le posizioni dei diversi partiti in Italia.
Ci sarà chi punterà ad assecondare gli sforzi di Bruxelles e perorerà con maggior decisione l'impegno con l'Ucraina visto che i tempi stringono; e chi, invece, avvolto nelle bandiere del pacifismo si opporrà a grandi investimenti in armamenti e si schiererà per una trattativa, magari a perdere, con Putin. Tutti segnali, almeno nella mente di Conte e di Salvini, per diventare gli interlocutori in Italia di un possibile cambio della guardia alla Casa Bianca e per modificare il profilo delle loro coalizioni.
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