L'ombra in mimetica si aggira indisturbata da quasi due anni, nella grande pianura del Polesine, tra i cascinali nelle golene del Po, nei piccoli borghi operosi, nelle case, nelle ville isolate. C'è chi l'ha visto in bici, aggirarsi sugli argini. E chi se l'è visto arrivare in casa, armato, gelido, pronto a tutto. Non se lo dimenticherà mai.
Igor Vaclavic - ma anche Vatslavich, o chissà come, nelle trascrizioni dal cirillico che rendono tutto ancora più fumoso - è l'uomo che sabato sera a Budrio, vicino Bologna, ha ammazzato senza pietà il barista Davide Fabbri, colpevole di non essersi arreso. La certezza non c'è ancora, ma tutto coincide, tutto porta verso di lui. È una pista inquietante, che tira fuori vecchi fantasmi di briganti dalle memorie della gente di queste parti. Ma questi sono briganti del terzo millennio, senza onore e senza pietà.
Vaclavic è un ex militare russo, anche se il cognome parla di un origine ucraina. Con l'uniforme dell'ex Armata Rossa h imparato crudeltà ed efficienza. Nello sbandamento del dopo-Eltsin, toglie la divisa e arriva in Italia. Sbarca subito qui, nelle distese tra il delta del Po, Rovigo, Ferrara. E ricicla il know-how imparato sotto le armi. Nel suo mirino, gli abitanti delle case indifese. Arriva di notte, vestito di nero, la bandana nera in testa, armato di arco e di frecce. Nell'arco di pochi mesi, la leggenda del «guerriero ninja» si sparge nel Polesine. Igor colpisce a ripetizione. A giugno del 2007, l'ultimo assalto ad una azienda agricola fallisce. Ai carabinieri, che lo catturano in un casolare, dice: «Il mio modello è Robin Hood».
La giustizia, con lui, non si mostra indulgente. Resta in galera quasi otto anni. Il pasticcio avviene due anni fa, quando a pena espiata viene scarcerato. Invece di caricarlo sul primo volo per la Russia, lo lasciano libero di riprendere le sue imprese, qui in Italia. In galera, nel carcere ferrarese dell'Arginone, la sua mutazione si è completata. Adesso l'ex soldato Ivan è una macchina da violenza.
Il primo a parlare di lui, di «Igor il Russo» è un altro uomo venuto dall'est: Ivan Pajdek, protagonista di una delle serie di rapine più allucinanti messe in atto nella zona. Quattro, una dopo l'altra, a cavallo dell'estate del 2015: a Mesola, a Dedore, a Coronella, ad Aguscello. Una escalation di ferocia. A Mesola legano una donna di 93 anni al letto, imbavagliata, e se ne vanno lasciandola così: la salva due giorni dopo una nipote, prima che muoia di crepacuore. A Coronella, cercano anche di violentare la figlia del padrone di casa. Ad Aguscello, a settembre del 2015, la tragedia finale: Pier Luigi Tartari, 73 anni, pensionato, viene tenuto prigioniero per due giorni, massacrato di botte e buttato infine ad agonizzare in un rudere lungo il Reno. Il corpo senza vita di Tartari viene trovato due giorni dopo.
È Pajdek, identificato, estradato dalla Slovacchia e condannato a trent'anni, a fare il nome di «Igor il Russo». Lo fa in Corte d'assise, nel processo ad altri due giovani disgraziati che erano con lui a razziare le ville. «Tutto questo è iniziato quando è uscito dal carcere Igor, due o tre mesi prima del fatto di Aguscello». Io e i due ragazzi, dice Pajdek, eravamo solo dei ladri da due soldi, rubavamo la nafta dai camion o nei cascinali, cose così. Invece «Igor il Russo», invece, puntava più in alto.
«Voleva fare qualcosa di più grosso, lui sapeva i posti buoni e tranquilli e ci ha portato in quella prima rapina a Villanova». Sì, Igor conosceva i posti perché erano gli stessi delle sue prime imprese. E sono i posti dove oggi cerca rifugio dalla imponente caccia all'uomo che metterà fine alla sua scia di morte.
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