"I grandi chef come gli stilisti. L'alta cucina non morirà mai". Intervista ad Alain Ducasse

Il cuoco francese (18 stelle) Alain Ducasse è il più famoso al mondo. "La vera avanguardia è il rapporto con la natura"

"I grandi chef come gli stilisti. L'alta cucina non morirà mai". Intervista ad Alain Ducasse
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Trentatré ristoranti in nove Paesi del mondo, diciotto stelle Michelin, duemila dipendenti. Bastano i numeri per far capire chi è Alain Ducasse, certamente lo chef più stellato del mondo, probabilmente il più famoso. Che ha anche un ristorante in Italia, a Napoli, all'hotel Romeo, dove c'era il Comandante. Tutti si aspettavano che prendesse anch'esso la stella, ma i francesi tra le tante dimenticanze di un'edizione, quella presentata qualche giorno fa a Modena, francamente sconcertante hanno trascurato anche il loro connazionale. Ma la mia intervista con il 68enne di Castel-Sarrazin è precedente, è avvenuta in occasione del Festival des Étoiles a Monte-Carlo, e quindi non posso sapere se e quanto c'è rimasto male.

Ducasse, come va il suo ristorante napoletano ?

«Il ristorante dell'hotel Romeo ha trovato il suo posto nel paesaggio gastronomico napoletano e la cosa mi riempie di gioia. La scena gastronomica italiana è appassionante, piena di vita e incredibilmente dinamica ».

Ma in Italia si parla tanto di una presunta crisi del fine dining. Lei cosa ne pensa?

«Certamente l'epoca attuale non è propizia per i formalismi. Ma è anche evidente che l'alta gastronomia ha fatto evolvere molto il suo modello. Pertanto deve adattarsi alle posture alla moda. Resto persuaso che l'alta cucina continuerà a esistere perché è una risorsa indispensabile di formazione e di ricerca. Il processo è esattamente quello dell'alta moda: la haute couture è la locomotiva che traina un'intera industria».

E nel vivo dibattito tutto italiano tra i partigiani della tradizioni profonde e gli innovatori, dove si colloca?

«È sufficiente guardare quello che fanno i grandi chef italiani, e sono tanti e talentuosi. Partono dalle radici per esprimere la loro personalità. La cucina è un dialogo continuo tra un'eredità e la realtà del momento. Il dibattito italiano mi sembra tanto più sterile quanto è diversa la cucina italiana: ogni regione, ogni città e perfino ogni paesino da voi ha la sua propria interpretazione dei classici. Quindi, se c'è una cosa da conservare in Italia è proprio questa libertà di interpretazione. È quello che costituisce la tradizione profonda della cucina italiana».

Come immagina il futuro dell'avanguardia in cucina?

«La grande sfida della cucina, oggi e nel futuro, è il suo rapporto con la natura. Questa è la vera avanguardia».

Parliamo della sua cucina. Come la descriverebbe in tre parole?

«Naturalità, Mediterraneo, convinzione. La naturalità è questo approccio che spinge il rispetto della natura il più lontano possibile. Il Mediterraneo è il territorio dove trovo i prodotti migliori. E la convinzione è che la cucina debba al contempo sorprendere e rassicurare, che debba trovare il giusto equilibrio tra il nuovo e il conosciuto».

Ha dei piatti che considera emblematici?

«Io non amo troppo l'idea dei piatti emblematici, mi fanno pensare che un cuoco possa essere riassunto in un solo piatto e che da lui ci si aspetti che lo ripeta indefinitamente. Ma riconosco che c'è non un piatto ma un menu che io ho proposto all'apertura del mio ristorante, nel 1987, e che è da allora sempre presente: il menu Jardins. È interamente vegetale, ciò che oggi sembra assai banale ma all'epoca, le assicuro, non era tale».

Un menu lungo quasi quarant'anni. Ma come è evoluta la sua cucina in tutto questo tempo?

«La mia evoluzione va per piccoli tocchi, sovente a seguito dell'arrivo di un nuovo executive chef che porta la sua sensibilità e i suoi tocchi, anche se i fondamentali restano identici. Prendendo in considerazione l'insieme dei miei ristoranti e non solo il Louis XV (il suo locale tristellato all'Hotel de Paris a Monte-Carlo, ndr), io ho sempre cercato di diversificare la mia offerte culinaria. La cucina del Louis XV non è quella del Dorchester, a Londra, né quella di Tokyo, per dire. Ogni ristorante ha la sua storia e la deve raccontare. Poi c'è la questione assolutamente fondamentale della relazione tra la cucina e la natura, io sono sempre più convinto che il cuoco deve assumersi le sue responsabilità. Questo mi ha spinto a proporre, nel mio ristorante Sapid, a Parigi, una versione molto accessibile della cucina vegetale».

C'è stata un'idea in cui lei credeva molto ma che non ha funzionato?

«È possibile.

Non sono mai stato paralizzato dalla paura di sbagliare. Mi sono sempre buttato nei progetti pensando che per un'idea che non funzionava ce ne sarebbero state due che funzionavano. Ed è di queste ultime che mi ricordo».

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