Dietro il ritorno del terrore c'è la crisi nei rapporti tra Washington e il Pakistan

Stragi ricominciate da quando la Casa Bianca ha minacciato di eliminare 2 miliardi di aiuti

Dietro il ritorno del terrore c'è la crisi nei rapporti tra Washington e il Pakistan

«O con noi o con i terroristi». Il primo a dirlo fu il presidente George W. Bush. Era la mattina del 12 settembre 2001 e le Torri Gemelle fumavano ancora. A girare l'avvertimento presidenziale all'allora capo dei servizi segreti pakistani generale Mahmood Ahmed ci pensò il vice segretario di Stato Richard Armitage. Che ci aggiunse una minacciosa chiosa. «Altrimenti - disse - preparatevi ad essere bombardati e a tornare all'età della pietra». Nei 16 anni successivi nulla, però, è cambiato. Nonostante le minacce di Bush, seguite da quelle di Obama, il Pakistan ha continuato ad ospitare Osama Bin Laden, Al Qaida e i talebani.

Il primo a puntare esplicitamente il dito sulle ambiguità di quello pseudo alleato è stato Donald Trump. «Nel corso degli ultimi quindici anni gli Stati Uniti ha twittato lo scorso primo gennaio - hanno follemente dato al Pakistan più di 33 miliardi di dollari e loro in cambio ci hanno dato menzogne ed inganni pensando che i nostri leader fossero dei pazzi». Subito dopo ha prospettato l'azzeramento degli aiuti pari a oltre 1,9 miliardi di dollari annui. Una minaccia sufficiente a mettere in ginocchio il Pakistan e il suo apparato militare. Ma anche d'innescare pesanti ricadute sul fronte afghano. E infatti tre settimane dopo è arrivato l'attacco talebano all'Intercontinental Hotel di Kabul, seguito dall'assalto a «Save the Children» a Jalalabad, dalla strage con oltre cento morti nel centro di Kabul e dall'incursione di ieri all'Accademia militare.

Le rivendicazioni contano poco. Che a colpire siano i vecchi talebani o i nuovi militanti dello Stato Islamico poco importa. Più importante è l'evidente meccanismo di causa ed effetto tra la stretta di Trump e la recrudescenza negli attentati. Non occorrono fini analisti per intuire che le tre settimane intercorse tra il tweet di Trump e le stragi sono servite ai servizi - più o meno «deviati» - di Islamabad per garantire il traghettamento di kamikaze, armi e bombe. E far capire che l'alternativa ai due miliardi di aiuti negati sono più caos e più terrore.

Tutto questo offre inevitabilmente ai nemici di Trump l'ennesimo spunto per criticare l'irruenza di una politica a colpi di tweet. In verità dietro la presunta irruenza di Trump si nasconde un'analisi dell'intervento in Afghanistan scevra da ipocrisie. Proprio l'incapacità di piegare il Pakistan ha reso inefficace tutte le strategie di contenimento dell'insurrezione applicate in Afghanistan. Conquistare cuore e mente delle popolazioni e prosciugare il fiume in cui nuotano gli insorti è una missione impossibile se i 2430 chilometri di frontiera con il Pakistan restano una porta girevole utilizzata, di volta in volta, per far uscire i nemici in fuga o farvi accomodare quelli pronti a colpire. E proprio la mancanza di determinazione esibita di fronte a quella porta girevole e alla spudoratezza di un Pakistan unico vero padre padrone dei talebani, sono alla base di 16 anni di fallimenti.

Ovviamente dietro 16 anni di ipocrisie si nascondevano anche timori reali. Se uno era il rischio di un'escalation del caos e del terrore innescata dai servizi segreti di Islamabad l'altro riguardava la sorte di oltre cento testate ammassate nei poligoni nucleari pakistani e sorvegliate grazie anche ai fondi americani.

Ma dopo 16 anni di guerra costata solo all'America quasi 900 miliardi di dollari e oltre 2400 vite non c'è più spazio per ipocrisie e mezze misure. L'unica alternativa alla sconfitta è chiamare tutti i nemici con il loro nome e combatterli. Oppure tornarsene a casa.

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