Funzionari, oligarchi, consiglieri, imprenditori. Chi si allontana anche solo di un passo dal cerchio, più tragico che magico, di Putin, rischia grosso. Un the avvelenato, un salto dalla finestra, una misteriosa sparizione, un suicidio farsa. O come capitato a Ivan Pechorin, solo l'ultimo della serie, cadendo senza apparente motivo da una barca in navigazione nel mar del Giappone. Basta una critica, anche velata. Una parola ritenuta di troppo. Addirittura un consiglio che non piace al capo. E da uomini chiave si passa a uomini morti. Nella Russia di Putin funziona così, seguendo il più classico dei copioni di ogni regime totalitario.
Del resto il portavoce dello zar Dmitry Peskov ieri è stato chiaro, fugando ogni dubbio. «Il popolo russo sostiene Putin e chi critica l'operazione speciale deve stare molto attento», ha detto, per poi spiegare un concetto che non può che far paura. «Il popolo è sensibile sull'Ucraina e l'opinione pubblica reagisce molto emotivamente ma si è consolidato attorno alle decisioni del capo di Stato. Gli altri punti di vista, fintanto che rispettano le leggi correnti, sono pluralismo. Ma la linea è molto, molto sottile. Qui bisogna essere molto prudenti». Più chiari di così non si può essere. Il regime c'è, è durissimo e colpisce chi dissente.
E così si passano al setaccio gli ultimi giorni di Pechorin, che pure era uomo chiave del Cremlino in nell'Artico. Una decina di giorni fa aveva preso parte all'Economic Forum di Vladivostok e potrebbe aver detto qualcosa di non gradito al regime. Basta poco. Anche per chi fino al giorno prima era considerato un fedelissimo come lui che dirigeva l'istituto per lo sviluppo nell'estremo Oriente e nell'Artico, zona altamente strategica per Mosca. Quella di Pechorin è infatti solo l'ultima morte illustre e misteriosa. Il primo settembre l'ex presidente della potentissima Lukoil Ravil Maganov, è caduto dalla finestra della stanza di ospedale dov'era ricoverato. Aveva esplicitamente chiesto il ritiro delle truppe russe dall'Ucraina. Giornalisti come Yegor Prosvirnin, agenti come Kirill Zhalo, dirigenti energetici come Aleksander Subbotin, Igor Nosov, Mikhail Tolstosheya, Sergej Protosenya, Leonid Shulman e Alexander Tyulyakovo, o miliardari come Vasily Melnikov. Caduti da una finestra o scomparsi in suicidi palesemente mesi in scena. Morti come tanti altri funzionari di medio e basso rango.
Eppure c'è chi dice no, chi continua a sostenere con forza le proprie opinioni pur conscio di cosa stia rischiando. In principio sono stati 7 deputati municipali del distretto Smolninskoe di San Pietroburgo a firmare una mozione in cui si chiedeva esplicitamente che il presidente Putin venisse messo sotto processo per alto tradimento, considerato che l'operazione in Ucraina ha messo a rischio la Russia e i suoi cittadini. Dmitrij Paljuga, promotore dell'inziaitva, e gli altri sei, sono stati subito prelevati dalla polizia e interrogati perché avrebbero screditato l'esercito russo. Chissà che fine faranno. Ma il loro coraggio ha aperto una falla. Prima tre deputati municipali del consiglio del distretto Lomonosovskij di Mosca hanno lanciato un appello chiedendo le dimissioni di Putin. Adesso sono già cinquanta i deputati firmatari della petizione anti zar.
Una goccia nel mare, forse, un segnale chiaro che per l'ennesima volta Peskov e tutti gli scagnozzi di Putin mentono. Non tutti stanno con lui. In molti lo criticano, lo accusano e lo vorrebbero cacciare. C'è chi dice no. Almeno finché riesce a parlare.
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