Il «No» ha vinto. Ma le motivazioni di chi ha scelto «No» appaiono molteplici.
La prima, quella del dissenso nel merito al quesito proposto nella scheda elettorale, è stata la meno diffusa: ha contato nella scelta di alcuni strati di votanti, ma non ha costituito la spinta principale che ha determinato l'elevato afflusso alle urne e il risultato finale. Non a caso, ancora una settimana prima del referendum, la maggioranza degli intervistati in un sondaggio (effettuato da Eumetra Monterosa e rivelatosi in seguito il più corretto nello stimare il risultato «vero») dichiarava di non reputarsi sufficientemente informato sulla proposta di riforma, ma di avere, ciò nonostante, già deciso cosa votare.
La seconda motivazione di voto è legata alla figura di Matteo Renzi e del suo Governo. Come si è già sottolineato in passato, il livello di gradimento verso l'esecutivo è progressivamente diminuito negli ultimi mesi, sino a toccare, qualche settimana fa, il 23% (rilevazione Eumetra Monterosa). La forte personalizzazione impressa dal Presidente del Consiglio sul voto referendario (della quale le opposizioni hanno largamente approfittato e con un diniego arrivato tardivamente) ha portato molti elettori a manifestare col voto la propria disapprovazione per l'operato del Governo, trasformando la consultazione in un vero e proprio referendum «contro Renzi».
Ma nemmeno quest'ultimo è stato il fattore principale che ha spinto al voto «No». Per la maggior parte di quanti hanno scelto questa opzione, il «No» è stato infatti dettato soprattutto da un terzo ordine di motivazioni, che hanno a che fare col disagio sociale, con la frustrazione di ampi settori di ceto medio impoverito, con l'assenza di prospettive certe e/o serene sul futuro, specie dai giovani (fenomeno questo messo in luce anche dall'ultimo rapporto Censis). Chi, come queste categorie, è stato colpito dalla crisi (e dai fenomeni che l'hanno provocata) tende spesso a dare la «colpa» non tanto a questa o a quella forza politica, quanto ai cosiddetti «poteri forti», all'establishment in generale. Si tratta di un fenomeno internazionale (ad esso vanno associati, almeno in parte, il voto sulla Brexit e quello a favore di Trump). Larghi strati popolari (non è sempre corretto chiamarli «populisti») esprimono col voto (da loro interpretato contro l'establishment) la loro protesta e il loro disagio.
Per questi motivi è sbagliato interpretare l'esito referendario come una «punizione» verso questa o quella forza politica o come «premio» verso altre. Il voto è stata la manifestazione di una protesta che prescinde dai partiti.
Anche se, certo, la componente partitica e l'effetto di «appartenenza» verso le diverse forze politiche ci sono stati. Si stima che abbia votato per il «Sì» tra l'80 e il 85% degli elettori del Pd che si sono recati alle urne. E che abbia votato «No» grossomodo la medesima percentuale dei votanti di Forza Italia che hanno partecipato alla consultazione. C'è da notare, tuttavia che, mentre la percentuale di adesione del Pd è rimasta pressoché stabile nelle ultime settimane, quella di Forza Italia ha subito una recente intensificazione. Qualche settimana fa, infatti, una quota considerevole (fino al 40%) tra quanti esprimevano l'intenzione di voto per Forza Italia si dichiarava indecisa o, in parte, addirittura orientata al «Sì». Negli ultimi quindici giorni invece (forse anche grazie alla presa di posizione di Silvio Berlusconi) il partito si è ricompattato e, come si è detto, ha votato a larghissima maggioranza per il «No». Il tentativo del presidente del Consiglio di conquistare voti del centrodestra e di Forza Italia in particolare non è andato a buon fine.
Ma, come si è detto, non si è trattato tanto di un voto ai partiti, quanto dell'espressione di un malessere sociale. Ne è prova, tra l'altro, che il «No» è stato votato in misura maggiore nelle aree più disagiate del Paese (Sud e Isole) e nelle zone periferiche di alcune grandi città.
Anche la distribuzione del voto per età conferma questa interpretazione. Hanno infatti scelto il «No» soprattutto i giovani, specie i giovanissimi: nelle ultime analisi sulle intenzioni di voto si rileva l'88% di «No» tra i 18-24enni e il 78% tra i 24-35enni. Proprio le generazioni che rappresentano oggi una delle parti meno garantite e forse più fragili del paese. È qui che si trovano in misura più elevata i livelli di disoccupazione, di precariato e, di conseguenza, di incertezza sul futuro.
Insomma, è stato, in larga misura, un voto di protesta.
Su cui hanno influito poco i timori di crolli o turbolenze nei mercati finanziari: interrogato pochi giorni prima del voto, il 78% del campione di italiani intervistato escludeva ricadute di questo genere in caso di vittoria del «No».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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