"Gli elettori non vogliono litigi sullo ius scholae". Intervista a Licia Ronzulli

La vicepresidente del Senato: "È giusto parlarne, ma dentro il partito, ascoltando tutti"

"Gli elettori non vogliono litigi sullo ius scholae". Intervista a Licia Ronzulli

Licia Ronzulli è vicepresidente del Senato. È una delle persone che è stata più vicina a Berlusconi negli ultimi anni. Si è sempre distinta per autonomia di pensiero. Oggi ha qualche dissenso dal leader del suo partito, Antonio Tajani, sulla necessità di introdurre lo ius scholae per i ragazzini stranieri.

Senatrice Ronzulli, ci spieghi bene qual è la sua posizione sulla cittadinanza agli immigrati.

«Non mi appassionano i dibattiti ferragostani, ma non ne farei una questione di cicli scolastici. Piuttosto, non possiamo costruire il tetto senza fare prima le fondamenta. La prima norma sulla cittadinanza è del 1992, quando il premier era Andreotti e il ministro della Giustizia Martelli, un governo non di sinistra. Da allora la legge è stata modificata 11 volte da esecutivi di tutti i colori. La soluzione, però, è superare la logica di piccoli interventi a breve termine. La politica è chiamata a esprimere una visione della società e la prima domanda che dobbiamo porci è: cosa significa essere italiani?».

Cosa significa?

«Dal 2007 esiste La Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione, emanata dall'allora ministro dell'Interno Amato, con Prodi premier. Quindi, non era un documento espressione della destra cattiva e razzista. La Carta mette al centro la Costituzione e descrive la cittadinanza come punto d'arrivo del progetto di integrazione tramite il rafforzamento delle attività di promozione della conoscenza della lingua italiana e degli elementi essenziali della nostra storia e della nostra cultura. È un discreto punto di partenza».

Al centro di tutto c'è la Costituzione: cosa distingue il vostro punto di vista da quello della sinistra?

«L'impostazione e il punto d'arrivo. Alle sinistre chiedo: intendete la cittadinanza come premio finale della raccolta punti della Coop o come l'esito di un vero percorso di integrazione? La differenza è abissale: nel primo caso parliamo di un semplice passaporto; nel secondo caso, di un tassello che si aggiunge al puzzle sempre più ricco della società italiana. Essere italiani vuol dire remare tutti nella stessa direzione: diritti, democrazia, dignità umana, sviluppo economico e civile».

Le regole attuali che nuovi italiani ci consegnano?

«In primo luogo, ricordo che con le regole attuali negli ultimi 10 anni sono state raddoppiate le cittadinanze concesse con una media di 200 mila l'anno rispetto alle 100 mila del 2013. Ma dobbiamo interrogarci sulle regole. Alcuni nuovi cittadini sono pienamente integrati, mentre altri non sanno neanche parlare italiano. Il requisito dovrebbe essere il livello B1, ma chi vigila sugli enti che rilasciano le certificazioni? Qualcosa non funziona in questo meccanismo: basta chiedere a un Sindaco e vi dirà che l'80% ha difficoltà a leggere anche una sola riga del giuramento. Spesso vengono accompagnati dai figli, che fanno da interpreti».

È vero che spesso i bambini stranieri sono più italiani dei genitori? Non si può dare la cittadinanza prima a loro come propone Tajani?

«È vero che sono spesso più integrati ma non basta questo per dar loro una cittadinanza da minorenni, tra l'altro senza che i genitori la possano ottenere. Già oggi la norma assegna la cittadinanza italiana in modo automatico ai figli minorenni di chi viene naturalizzato. Sempre che la sinistra non pensi di usare questa situazione come grimaldello per poi darla più rapidamente ai genitori».

Che differenza c'è tra cittadinanza italiana ed europea?

«Diventando cittadini di un Paese UE si diventa cittadini europei, ma le regole sono diverse tra i 27 Stati: si definisca un perimetro europeo per la cittadinanza. Anche perché abbiamo dei paradossi. Oggi un cittadino della Malesia può entrare senza visto in Italia, mentre ne ha bisogno per entrare in Francia. Domani, però, questa persona acquisisce la cittadinanza italiana per matrimonio e da italiano può recarsi senza problemi dove, fino al giorno prima, gli occorreva un visto. Europa abbiamo un problema: il tema va posto a Bruxelles».

Lei pone le cose in modo complesso. La sua idea richiede un dibattito politico approfondito e che coinvolga tutti

«Certo. Il dibattito deve partire da questi concetti, senza pregiudizi, senza barricate tra destra e sinistra, per individuare la rotta da seguire».

Nel suo partito questo dibattito è aperto?

«Giusto parlarne, ma non sui giornali come è successo in questo caso, e in modo improvviso. Dobbiamo farlo nelle nostre sedi e agli eventi di partito, ascoltando tutte le posizioni e fare sintesi. È un tema che richiede una riflessione profonda. Anche perché dobbiamo tenere a mente quello che il presidente Berlusconi diceva sul tema, senza tirarlo per la giacchetta, né da una parte né dall'altra. Non era pregiudizialmente contrario o favorevole. Ma sosteneva, da pragmatico qual era, che questa è una questione che preoccupa i cittadini, e che non premia in termini elettorali, mentre invece dobbiamo dedicare la nostra attività a risolvere problemi più importanti per gli italiani, tra i quali la riduzione delle tasse, l'aumento delle pensioni e dell'occupazione. Ma mi faccia dire un'altra cosa».

Prego.

«Su questi temi non si può litigare nel governo, sui giornali. In giro mi chiedono se stiamo scherzando: gli elettori non ci perdonano i litigi».

Ma FI ha risposto

agli alleati che era nel programma di centrodestra.

«Nel programma c'è scritto di favorire l'inclusione sociale e lavorativa degli immigrati regolari per contrastare l'immigrazione illegale. Credo sia un'altra cosa».

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