Sul protocollo Albania e sul braccio di ferro con le toghe più ideologiche iniziato il 18 ottobre scorso con la sezione Immigrazione del tribunale di Roma si va avanti, perché ce lo chiede l'Europa.
È questa la sintesi del ragionamento dell'esecutivo rispetto alla procedura accelerata sui rimpatri per i migranti maggiorenni, maschi e in buona salute provenienti da una lista di Paesi sicuri che presto avrà il timbro Ue, così come sugli hotspot extra europei o «return hubs» su cui si lavora nel nuovo Patto europeo immigrazione e asilo che entrerà in vigore nel 2026 e di cui si parlerà giovedì a Varsavia nella riunione dei ministri dell'Interno di tutti i 27 Paesi.
L'Italia è in prima fila non solo per la posizione cruciale nelle rotte del Mediterraneo ma anche per una legislazione che ha allargato l'articolo 8 della Convenzione europea fino a slabbrare le maglie della «protezione umanitaria», sublimando «il diritto a un'esistenza privata libera e dignitosa» anche a chi ha manifestato «la seria intenzione di integrazione, anche senza un lavoro a tempo indeterminato».
Se la stretta sulle sanzioni ha spaventato le Ong e la lotta agli scafisti ha ridotto gli sbarchi del 60%, resta drammaticamente basso il numero di rimpatri, inferiore al 20%. Nel mirino non ci sono i profughi che hanno diritto a restare in Europa ma i cosiddetti asylum seeker, ovvero «chi si avvantaggia dell'utilizzo strumentale delle richieste», spiegano fonti del Viminale, convinte che il contrasto all'immigrazione irregolare «sia la strada da perseguire per combattere gli affari dei trafficanti senza scrupoli».
Ma serve una legislazione europea che renda i rimpatri impermeabili alle interpretazioni della magistratura, ipersensibile sul tema dei diritti dei migranti. A marzo inizieranno a circolare le prime bozze. Ursula Von der Leyen nel suo intervento è stata chiara: «Serve un approccio comune sui rimpatri» per assicurarsi che «coloro che non hanno il diritto di rimanere nell'Ue vengano effettivamente rimpatriati».
Gli ultimi verdetti fotocopia che hanno rispedito i 43 profughi da Gjader a Bari rinviando alla più genuina interpretazione della Corte di Giustizia Ue (attesa già il 25 febbraio) sul concetto di Paese sicuro secondo il ministero dell'Interno «servono solo a prendere tempo, visto che il modello Albania e visto come un valido esempio di cooperazione innovativa con un Paese terzo», con diversi Paesi già a caccia di partner extra Ue come Danimarca e Olanda.
Una fonte della maggioranza fa giustamente notare come «tutti e cinque i giudici che ieri hanno firmato i provvedimenti della Corte di appello provengono dalla sezione Immigrazione del Tribunale di Roma», vanificando sia il decreto Flussi che aveva trasferito la competenza, sia «le scelte della Cassazione sui Paesi sicuri, seppur con una ordinanza interlocutoria, secondo cui il giudice non si sostituisce nella valutazione che spetta al governo, non in 48 ore e non con una sentenza erga omnes uguale per tutti».
Non si tratta solo di un arroccamento securitario ma di una risposta all'attacco di forze contrarie all'Europa che vogliono condizionare le politiche Ue, con un'immigrazione in cui la parte preponderante è islamica e refrattaria a integrarsi con un modello di società che invece si preferisce combattere, nelle periferie
delle città o del Paese in mano alla criminalità organizzata che lucra sulla loro pelle, un nemico (in)visibile su contro cui la sinistra non ha fatto abbastanza e un tema, quello delle mafie, fuori dal dibattito politico.
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