"Il "Giornale" di Indro e quella banda di pazzi

Così Paolo Granzotto ricordava la nascita del nostro quotidiano e i colleghi che nel 1974 diedero inizio alla "folle" avventura

"Il "Giornale" di Indro e quella banda di pazzi

Pubblichiamo un pezzo di Paolo Granzotto uscito l'11 aprile 2014 sulle pagine "speciali" che il Giornale dedicò ai 40 anni della propria storia. Il giornalista ricorda come nacque l'avventura del nostro quotidiano, nell'estate del 1974, e in particolare la sera in cui si chiuse in tipografia il primo numero.

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Quel 24 giugno 1974 allorché, in tipografia, licenziammo la prima pagina del primo numero del Giornale è stato raccontato più volte. Leopoldo Sofisti che, inciampando in uno dei tanti fili volanti che serpeggiavano nella spartana redazione, trancia il collegamento con le agenzie di stampa. Cesare Zappulli che batte l'intera Milano per trovare un busto di San Gennaro, senza la cui protezione, così sosteneva, «sarebbero stati solo guai».

Il «salame», vale a dire la colonna di piombo tenuta insieme da un giro di spago, del fondo di Montanelli - l'ultimo «pezzo» da collocare nel telaio prima di trarne il flano - che salta, che esplode fra le mani del tipografo e tutti giù, ginocchioni, a recuperare le righe e rimetterle al posto loro. La corrispondenza di Egisto Corradi dal Mozambico che non arrivava mai e Michele Topa, capo degli esteri, che fulminava con lo sguardo, come se fosse colpa sua, il capo degli stenografi Vittorio Frigerio il quale, cuffie alle orecchie, blocco e matita in mano, continuava, imbarazzatissimo, a far cenno che no, niente ancora.

In quel caos, Guido Piovene amabilmente conversava con Enzo Bettiza di letteratura francese, come se fossero nel salotto di casa, indifferenti all'animazione, all'isterica eccitazione tutt'intorno. Gianfranco Piazzesi passava da una pagina all'altra, suscitando in Pilade del Buono, incaricato di «chiudere», violente e pepate reazioni verbali che il «Chiorba» (così era soprannominato Piazzesi) rintuzzava dando fondo al pittoresco repertorio di epiteti toscani. E Montanelli, il capitano Achab che sventolava le sue lunghe braccia, strabuzzava gli occhi, tuonando: «Ora basta, si stampa, si va in macchina!» e intanto di soppiatto dava l'estrema limatina al fondo per la disperazione del solo in grado di reggere il timone di quella nave di pazzi, Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Quando, come Dio volle, la rotativa cominciò finalmente a sfornare copie, si brindò con spumante. Ciascuno dei presenti, una sessantina, sapeva che quella notte metteva in gioco la propria carriera professionale.

Perché se il Giornale avesse fatto fiasco, nessuno di noi, Montanelli compreso, avrebbe trovato un quotidiano, un settimanale, un ufficio stampa disposto ad assumerlo. Non che ci fosse crisi, nell'editoria, ed anzi. Ma con il Giornale in edicola, eravamo diventati degli appestati. Il più benevolo nei nostri confronti fu Fortebraccio che, sull'Unità, così ci salutò: «Ed ecco che esce questo abortino che sembra, anche solo a vederlo, vuoto come un uovo bevuto».

Per farcelo fare il fiasco ce la misero tutta. La grande borghesia, gli imprenditori «amici» sui quali contavamo per avere la pubblicità, si eclissarono (salvo il manipolo, dotato di attributi, che ci permise di sopravvivere). I sindacati ci tormentarono con gli scioperi, gli edicolanti, quando non dicevano d'esserne sprovvisti, occultavano il Giornale. I politici, d'ogni colore, manifestavano nei nostri confronti disprezzo quando non aperta ostilità.

Potevamo contare solo sui nostri lettori, i quali non ci abbandonarono mai nemmeno quando acquistare il Giornale significava passare per i nemici della classe operaia, per sporchi reazionari, per squadristi della peggior risma e pertanto meritevoli di avere il cranio fracassato dalle chiavi inglesi.

Avevamo contro tutti, ma dalla nostra c'eravate voi, i lettori. Ed è a voi, festeggiando questa ricorrenza, che diciamo grazie.

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