I buchi neri di una carriera: euro capestro e lira svalutata

Carlo Azeglio Ciampi nel 1992 bruciò 63mila miliardi della vecchia moneta. E con Prodi accettò il cambio a 1936,27 che ci ha stesi

I buchi neri di una carriera: euro capestro e lira svalutata

Novant'anni e sentirseli tutti addosso. Successe a Ciampi, nel 2010: «Ora che è giunto il momento dei bilanci, mi rendo conto che questo non è il Paese che sognavo». Eppure lui, da capo dello Stato forte di un mandato larghissimo, ci aveva provato. La Patria e la sfilata ai Fori, la Costituzione come «Bibbia civile» e il Quirinale «casa dei cittadini», la moral suasion e il viaggio attraverso le cento province. Carlo Azeglio Ciampi aveva tentato in tutti modi a riunificare un'Italia divisa in bande e in crisi di fiducia verso le istituzioni, e in parte c'era pure riuscito. Ma poi era arrivata la Grande Crisi. «È la peggiore dal Dopoguerra - ha scritto nel suo ultimo libro - I giovani di oggi, per la prima volta, si vedono privati di un futuro migliore». Colpa in parte anche sua, sostengono i suoi detrattori, che non gli hanno perdonato la svalutazione della lira nel 1992, le condizioni capestro per entrare nell'euro e il via libera alla riforma del Titolo V.

Sul Colle c'era arrivato quasi per caso e un po' controvoglia ma soprattutto per mancanza di alternative, di nomi «condivisi». Era un tardo pomeriggio di maggio del 1999 e faceva ancora fresco quando Massimo D'Alema si presentò a Santa Severa con il cappello in mano. «Ora tocca a te». Ciampi tentò a resistere, prese qualche giorno di tempo, poi si lasciò convincere: dopo il settennato contrastato e divisivo di Oscar Luigi Scalfaro, serviva uno come lui, un «servitore dello Stato», un uomo fuori dai partiti. L'uomo dell'euro.

Ciampi nacque a Livorno nel 1920 e cominciò a 24 anni il suo impegno politico, quando da ufficiale del Regio esercito, in rotta dopo l'otto settembre, si rifiutò di aderire alla repubblica di Salò ed entro nel Partito d'azione. Dopo la guerra vinse un concorso alla Banca d'Italia e in trent'anni scalò tutte le posizioni. Diventò governatore nel 1979, nel momento più critico: l'istituto che era stato appena sconvolto dal caso Sindona e dall'arresto di Paolo Baffi. Ciampi, con stile britannico, guidò Palazzo Koch fuori della tempesta creando un gruppo di lavoro che avrebbe fatto molta strada, i Ciampi-boys: tra loro il più famoso è Mario Draghi. Molti economisti però gli contestarono la difesa ad oltranza della moneta nel '92, 63mila miliardi bruciati per restare agganciati all'irrealistico cambio lira-marco a 753, una scelta che ci costò l'esclusione dallo Sme. Eppure il govenatore della Bundesbank Hans Tietmayer aveva avvertito: Berlino non avrebbe onorato il trattato di Nyborg che impegnava i Paesi membri a sostenere una valuta sotto attacco.

Un anno dopo era presidente del Consiglio. Timido, schivo, leggermente balbuziente, amante delle passeggiate in montagna e delle remate con il pattino a Santa Severa. Ciampi non aveva le carte in regola per una carriera politica, eppure nel 1993 Scalfaro scelse proprio lui per Palazzo Chigi. Il suo governo tecnico durò un anno e riuscì a dare una sistematina ai conti pubblici. Per le elezioni del 1994 si fece il suo nome come capo di una coalizione di popolari e progressisti che non venne mai alla luce. Silvio Berlusconi diventò premier e Ciampi se ne andò a fare il vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali. Venne richiamato al governo due anni più tardi da Romano Prodi, che gli affidò Tesoro, Bilancio e Finanze, accorpati in un unico superministero dell'Economia. Cultore del rigore finanziario, cercò di ridurre il deficit e pilotò l'aggancio alla moneta unica: un ottimo risultato, anche se quel cambio a 1936,27, che ai tedeschi servì per finanziare la riunificazione, negli anni ci è costato moltissimo.

Nel 1999 il salto al Colle. D'Alema voleva una nomina bipartisan, quindi diede il benservito a Scalfaro, che sperava nel bis, e compilò insieme al Cavaliere una rosa di nomi: Amato, Bonino, Marini, Mancino, Russo Iervolino, nessuno però del tutto convincente. L'unica scelta possibile era Ciampi. Ma il settennato si aprì con la disfatta di D'Alema alle Regionali e la seguente crisi di governo. Dopo la parentesi Amato, il mandato di Ciampi coincise con la lunga stagione del secondo governo Berlusconi. Fu un rapporto cordialmente freddo, a volte puntuto, tra due uomini di carattere e formazione diversissimi. Ci fu qualche scontro, anche duro, ma insomma rose e fiori rispetto al periodo scalfariano.

Tutto merito della moral suasion, cioè di quel sistema introdotto da Ciampi di «assistenza istituzionale» sulle leggi più delicate per evitare sforamenti di bilancio e rischi di incostituzionalità. Il Quirinale incalzava e a volte assillava il governo nella fase della formazione dei provvedimenti, pretendeva aggiustamenti e tagli, poi però offriva una copertura al momento della presentazione ufficiale. Il meccanismo non poteva funzionare sempre, infatti Ciampi in cinque anni rimandò alla Camere una decina tra leggi e decreti del Cav, tra cui due testi chiave: la Gasparri sul riordino del sistema tv e la riforma della giustizia. Troppo per il centrodestra che parlava di «sconfinamento». Troppo poco per il centrosinistra e per i girotondini, che pretendevano maggior durezza contro le «leggi ad personam». Molti poi gli rimproveravano di non essersi opposto alla riforma del Titolo V, una delle cause dell'aumento del debito pubblico.

Tra la gente invece Ciampi raggiunse livelli di popolarità mai viste dai tempi di Pertini. Voleva unire il Paese e trovare valori comuni, così rilanciò i valori del patriottismo e diede lustro ai simboli laici della Repubblica.

Ripristinò la parata del due giugno e pretese che la nazionale di calcio cantasse l'Inno di Mameli, fece restaurare il Vittoriano e visitò tutte le province del Paese, un giro d'Italia tra bagni di folla, bandiere e gridolini. Era come una rock star, impensabile quindi alla scadenza del mandato non chiedergli di restare. Ma stavolta disse no: «Sette anni in una democrazia sono un'eternità».

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