Il canovaccio era già scritto: il cardinale Angelo Becciu è colpevole e va condannato. Ha dato soldi al fratello, ha sottratto fondi all'Obolo di San Pietro, ha dissanguato le casse vaticane con azioni spregiudicate come l'operazione sull'ex magazzino di Harrod's nel palazzo di Sloane Avenue 60 a Chelsea, quartiere posh di Londra. Un «marcio sistema predatorio e lucrativo» messo in piedi da «soggetti improbabili se non improponibili» per attingere alle risorse della Santa Sede grazie anche a «limitate ma assai incisive complicità e connivenze interne». Quali? Bisognerebbe chiederlo agli attori sul palco del processo in Vaticano, che avrebbero dovuto recitare bene le loro battute, come da copione. La commedia dell'arte, si sa, riserva sempre qualche sorpresa a chi come il Giornale, a scapito di un finale già scritto, si è seduto in poltrona a guardare lo spettacolo.
Così ciò che doveva essere, non è stato. Chi doveva dire, non ha detto. Chi doveva provare, non ha provato nulla. Chi doveva confermare, ha smentito. È come quando in un giallo di Agatha Christie l'io narrante è il colpevole. Quanto è costato, ad esempio, il palazzo di Londra a Sloane Avenue? La causa del più clamoroso processo mai fatto in Vaticano è priva di un'informazione fondamentale. Tutte le difese degli imputati già tre mesi fa hanno fatto richiesta di accesso agli atti. Risposta: nessuna. E sentendo parlare i protagonisti delle vicende (sul Palazzo di Londra e non solo) la nebbia, anziché diradarsi, si infittisce.
Chi conosce le segrete stanze vaticane ammette che anche Papa Francesco è rimasto sorpreso. Lui che con «un'azione tanto eclatante e praticamente senza precedenti», come ricorda il vescovo francescano Gianfranco Girotti, chiese e ottenne il 24 settembre di due anni fa la rinuncia di Becciu ai diritti connessi al cardinalato sulla base di presunte «informazioni precise e riservatissime». Ora, con le novità emerse dal processo in corso da quasi un anno, il Pontefice «adesso sa» che l'ex potente monsignore aveva un rapporto fondato sulla fiducia delle indicazioni degli uffici tecnici della Segreteria di Stato guidati da monsignor Alberto Perlasca. Capo ufficio, vero e proprio decisore su ogni profilo di merito secondo la difesa di Becciu, Perlasca però è rimasto fuori dal processo. Più le udienze offrono contributi, meno si spiega perché non sia al banco tra gli imputati. Con l'andare avanti dell'istruttoria, insomma, il racconto dell'accusa sembra faccia sempre più acqua. Da tutte le parti. Il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, magistrato di esperienza ultradecennale (le cui intuizioni sulla Mafia Capitale a Roma hanno trovato conferme solo «postume», ed è un peccato), deve fare i conti in aula con le frequenti e a volte stizzite reazioni del Promotore di Giustizia Alessandro Diddi e alle veementi proteste degli avvocati che spesso costringono il Tribunale a frequenti interruzioni per placare gli animi. La colpa è tutta dei giornaloni: avevano già preparato la croce per inchiodare Becciu, ingannando i propri lettori. Ma oggi tacciono, forse di vergogna. Se guardiamo al famoso Palazzo, Becciu non può certo pagare gli errori commessi dopo che era stato sostituito alla Segreteria di Stato. Nessuno dice che nella vendita del Palazzo di Londra tutto sia stato fatto nel migliore dei modi. Né che la gestione degli investimenti fosse irreprensibile (ma anche il contrario è tutto da dimostrare). C'è stata una perdita? Non ci sono elementi di fatto documentati. E non sarebbe comunque sufficiente a dimostrare il reato. Mentre resta il mistero: chi aveva intavolato l'operazione, come Perlasca, avvalendosi di consulenti e mediatori sconosciuti a Becciu, è stato prosciolto da tutte le accuse.
E si continua a parlare del «caso Angola». C'è voluta la deposizione del finanziere Raffaele Mincione per scoprire quello che si sapeva già. Becciu aveva chiesto all'Ufficio di valutare l'eventuale convenienza dell'operazione relativa allo sfruttamento di un giacimento petrolifero. Ricevuto un report negativo, decise di non dar luogo all'operazione. «Tutto provato documentalmente» dicono i legali Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo. Eppure l'Espresso, per primo a sparare su Becciu («un'inchiesta giornalistica che farà epoca»), aveva promesso la rivelazione di uno squarcio di verità «sullo scontro di potere gigantesco nel cuore della Chiesa, sul tradimento del messaggio di Papa Francesco, sul tentativo di un gruppo di sodali di impossessarsi di quanto c'è di più caro ai fedeli». Cosa resta di queste roboanti promesse? Nulla. Anche Report, che ha seguito il solco del settimanale, ha impasticciato veline e veleni in una narrativa preconcetta e unilaterale che ha ignorato le plurime ricostruzioni, accostando Becciu a fatti mai avvenuti e ampiamente smentiti come le fantomatiche richieste di denaro dalla Congregazione per le cause dei Santi nel giugno del 2018 (il cardinale, tanto per dirne una, arriverà solo a settembre). E guarda caso proprio il Papa in questi giorni ha voluto mandare un messaggio ai giornali «convulsi, nelle mani di tutto un mondo di comunicazione, che o dice la metà, o una parte calunnia l'altra, o una parte diffama l'altra, o una parte sul vassoio offre degli scandali perché alla gente piace mangiare scandali, cioè mangiare sporcizia». A giorni si tornerà in aula, a inseguire i fantasmi e le maldicenze, mentre la verità la sanno in pochi. O forse solo il Papa.
In questa infinita Vatileaks, come la chiama Andrea Mainardi, ci sono anche gli scontri tra Becciu e George Pell, accusato ingiustamente di pedofilia ma mai umiliato pubblicamente come Becciu.
Ci sono le faide con lo Ior, i Cavalieri di Malta, la «vecchia guardia» e i «bergogliani». Canovacci buoni per un film alla Dan Brown. Non per un processo infinito senza prove. Con un colpevole già scritto. Che magari è pure innocente.
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