In fondo le cose dipendono da come le si guarda. Devono averlo pensato anche al ministero dell'Innovazione, dopo che il romanzo del sospirato arrivo dell'app Immuni si è subito trasformato in qualcosa di più simile a una tragicommedia. In pratica, molti dei primi - ben un milione - italiani che hanno scaricato l'applicazione per il tracciamento delle positività da coronavirus, si sono meravigliati di come pure in tecnologia gli stereotipi restino refrattari a qualsiasi algoritmo. E aprendo le istruzioni sul funzionamento hanno trovato un «lui» disegnato davanti a un pc e una «lei» con un bambino in braccio.
Apriti cielo (ovviamente): in tempi di Me Too, seppur un po' annacquato dagli eventi, le accuse sessismo sono sempre pronte all'uso, anche quando il ministro responsabile è una donna. Paola Pisano, in questo caso, che naturalmente è subito corsa ai ripari dopo gli strali arrivati anche da partiti e politici affini al governo. Su tutti l'ex premier Enrico Letta, pronto a scudisciare sul web anche chi commentava la notizia non trovando nulla di strano: «Sulla #immuniApp - ha twittato - peggio dell'immagine stereotipata (donna col bambino e uomo al lavoro) ci sono i commenti. Tanti, troppi, che la giustificano e si scandalizzano per lo scandalo».
Insomma: resta da capire se faccia più vittime il virus o il politically correct. Ma siccome, si diceva, basta cambiare visuale per aggiustare le cose, ecco che la promessa del ministro dell'Innovazione diventa realtà in poche ore: nell'immagine dentro l'app al computer passa la donna, mentre l'uomo si prende in braccio il bimbo. Oplà: in attesa di proporre uno scambio di ruoli anche nei quadri con la Madonna e San Giuseppe, Immuni così funziona. E invece no.
Il primo giorno di test nelle regioni pilota (Liguria, Marche, Abruzzo e Puglia) pare infatti abbia fatto riscontrare alcuni problemi tecnici: per esempio a molti non funziona la notifica che dovrebbe avvisare di essere stati a contatto con una persona trovata positiva, che poi sarebbe il core business dell'app. E a questo si aggiunge tutta una serie di critiche, polemiche e impedimenti vari in ordine sparso. Tipo: il governatore del Veneto Zaia che accusa Immuni di essere inutile e addirittura «dannosa per l'ossatura della Sanità», visto che una volta arrivato l'alert nessuno ha poi l'obbligo di andare a farsi testare; quello del Friuli Fedriga che ha già detto che nella sua Regione l'app non passerà; le catene sui social che inventano inesistenti pericoli di privacy, con amici e conoscenti che intimano ad amici e conoscenti di cancellare il proprio contatto prima di fare il download. E ancora: la certezza che alcuni modelli di cellulari (gli iPhone 6 e 5 o versioni Android molti diffuse nei dispositivi preferiti dalla Terza Età) quel download non possono farlo. E infine il calcolo di probabilità sul fatto che escludendo modelli di telefono, i minori sotto i 14 anni, i minuti di esposizione al rischio sotto i quali la notifica non arriva, alla fine restino soltanto appunto tante chiacchiere e pochi risultati certi.
Su tutto poi c'è il parere del Garante alla privacy, il quale alla fine della sua istruttoria (e nel via libera alla pubblicazione negli store di Apple e Google) ha fatto una serie di raccomandazioni al Ministero evidenziando 12 punti critici.
Tralasciando l'elenco, per certi versi molto tecnico, il particolare principale è il termine per porre rimedio: 30 giorni. In pratica: l'app che avrebbe già dovuto aiutare a non ammalarsi di Covid, se va bene sarà a regime tra un mese. Il problema, però, era «lui».
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