L'impressione è quella di un déjà vu. La procura di Milano che indaga Davide Casaleggio per la milionaria consulenza alla Philip Morris affolla la mente di tante immagini del passato antico e recente. Quella di Silvio Berlusconi premier, che nel 1994 riceve il suo primo avviso di garanzia a mezzo stampa al G7 di Napoli e quella 19 anni dopo del Cavaliere che viene estromesso dal Senato, dopo la condanna per frode fiscale, in mezzo il caso Ruby e altri ancora che hanno cambiato la storia. Quelle ben più recenti di Matteo Renzi alle prese con l'inchiesta Consip che coinvolge il babbo e la famiglia, l'inchiesta Banca Etruria sul padre della fedelissima Maria Elena Boschi e l'inchiesta per la sua Fondazione Open che gli regala un avviso di garanzia. Quelle di Matteo Salvini, imputato a Palermo e a Catania per le navi di migranti Open Arms e Gregoretti, alle prese con le inchieste sui fondi della Lega, sui commercialisti infedeli, sui 49 milioni scomparsi, sul Russiagate.
Prima ancora, i flash storici di Giulio Andreotti che si difende nelle aule dei tribunali di Palermo dalle accuse di mafia e di Perugia dalle accuse per l'omicidio Pecorelli. E quei fermi immagine di tanti politici travolti da Tangentopoli nei primi anni 90, da Bettino Craxi poi esule-latitante in Tunisia ad Arnaldo Forlani, con quella bavetta alla bocca durante l'interrogatorio di Antonio Di Pietro a Milano che ha segnato uno dei punti più bassi dell'iconografia politica italiana.
Tanto per dire che, quando i pm partono all'attacco di un politico o di un collaterale, come appunto Casaleggio, è quasi sempre un segnale di tramonto vicino per il personaggio, di crisi imminente per il partito di riferimento. Possono passare mesi, anni o decenni ma la via è segnata. È nel momento di debolezza che i nemici interni ed esterni tradiscono e aggrediscono, che arrivano le segnalazioni, le denunce, le soffiate negli uffici di solerti inquirenti. E allora è un po' come l'avventarsi dei cani sul cervo ferito. Che abbia colpe o non ce le abbia, nel giro della politica è comunque il sangue che chiama.
L'ultimo a trovarsi nell'occhio del ciclone è il guru junior del M5s, il figlio del fondatore con Beppe Grillo del movimento nato dall'antipolitica e approdato al governo. Proprio nel momento in cui è ai ferri corti con il gruppo dirigente pentastellato e il suo caso divide i grillini, già divisi su tante cose, ecco che i pm milanesi indagano sugli interessi della Casaleggio Associati con la lobby del tabacco. Il sospetto è che il guru, anche presidente della piattaforma web Rousseau che decide politiche e candidature del movimento, abbia influenzato le attività parlamentari. Compreso il taglio delle tasse sulle sigarette elettroniche, nuovo business della multinazionale Philip Morris. Ma al di là della vicenda in sé, colpisce il suo significato simbolico. In un momento in cui il M5s si dibatte in un'evidente crisi d'identità, i suoi dirigenti si azzuffano e i suoi parlamentari si dividono in correnti, il partito-non-partito che ha scalato le vette del consenso sull'onda della protesta e ora non riesce a gestirsi nella camera dei bottoni, vede azzannato dai pm il suo maestro telematico. E con accuse che fanno piazza pulita delle pretese grilline di superiorità morale, di onestà politica, di altruismo naïf e lontananza dalle manovre e dai compromessi della vecchia politica.
In questi giorni un'altra immagine viene rievocata involontariamente da Luigi Di Maio, costretto ad ammettere che il reddito di cittadinanza «va ripensato» ed è quella di lui vicepremier che a settembre 2018 annuncia dal balcone di Palazzo Chigi di aver «abolito la povertà». Se la creatura-simbolo del M5s viene disconosciuta da suo padre, è davvero possibile che i pm siano in agguato non solo per Casaleggio&Co. Né più né meno di come è stato per gli altri.
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