Io, scampato a Ebola, so cos'è questa paura. La pestilenza è peggio delle bombe in guerra

L'inviato del «Giornale»: «Diventa un'ossessione che ti toglie il sonno»

Io, scampato a Ebola, so cos'è questa paura. La pestilenza è peggio delle bombe in guerra

Racconto le guerre del mondo da 35 anni. La prima fu l'Afghanistan invaso dai sovietici. Ci misi piede nel 1983 quando lasciai l'Università per seguire un gruppo di mujaheddin. Da allora ne ho viste e riviste. Dalla Cambogia degli ultimi khmer rossi, ai massacri della ex Jugoslavia, dal genocidio del Rwanda agli orrori della Siria. Ma se mi chiedono «dove hai avuto più paura?» non ho dubbi. Non sotto il fuoco dei cecchini di Sarajevo. Non durante i raid dei Mig russi in Afghanistan e Cecenia. E neppure in Siria quando rischiai di finire nelle mani dei ribelli di Al Qaida. L'unica volta in cui la paura m'è entrata dentro e non m'ha lasciato è stato durante un contagio. Durante un'epidemia come quella che oggi ammorba il nostro paese. È successo a Kikwit, epicentro del contagio di Ebola che nel 1995 colpì lo Zaire, l'attuale Congo.

Ero attratto e incuriosito da quel morbo misterioso e letale, passato, come il coronavirus, dagli animali all'uomo. Volevo raccontare il sacrificio di cinque suore dell'ordine delle Poverelle di Bergamo colpite dalla pestilenza dopo una vita in quell'angolo di giungla pluviale. Ma mi spingeva anche il perenne gusto della sfida. Convinto di aver fatto la scorza a tutto ero certo di poter digerire anche quella peste. E invece no. Lo capii dalla prima sera. A Kikwit la notte non mi regalava né riposo, né tranquillità. A Sarajevo iniziavo le giornate sfuggendo ai colpi del cecchino serbo che teneva nel mirino l'uscita dell'hotel. La continuavo sotto i proiettili di quelli che bersagliavano viali e boulevard. Ma la sera m'addormentavo di botto, felice di esser sopravvissuto alla mia giornata. Mi succedeva ovunque. Persino in quella Grozny dove, la notte, i missili Scud disintegravano interi isolati. A Kikwit no. Mi giravo e rigiravo, ma l'ansia non se ne andava mai. «Bombe e proiettili si vedono e si sentono. Il virus no. In guerra se ti colpiscono mi ripeteva una vocina - sai subito com'è andata. Con Ebola no, devi aspettare due o tre settimane. E intanto lui può esserti entrato dentro». In qualsiasi momento. In qualsiasi luogo. Quando sei inciampato e caduto sul terreno infetto dell'ospedale. Quando hai intervistato i sei monatti con occhiali di gomma ed elmetti bianchi intenti a spingere un carretto e il loro macabro carico di cadaveri infetti. Ma persino nello stesso albergo dove un inserviente malato può averti servito la cena o rifatto il letto. E così il contagio diventò un'ossessione, un fantasma, un tarlo che rubava il sonno, dominava gli incubi, accompagnava ogni istante della giornata. Durò per sei giorni e sei notti, s'impadronì delle mie viscere, dei miei pensieri, della mia forza d'animo. Fino alla notte in cui Ebola si portò via anche suor Anna Elvira, l'ultima delle cinque suore contagiate. Quella notte Mariella Furer, la fotografa che m'accompagnava in quell'avventura, mi svegliò, mi urlò «Portami via». La paura era diventata terrore, s'era impadronita di noi. Corremmo all'aeroporto e ore più tardi c'imbarcammo su un volo clandestino usato dai cercatori di diamanti. Mariella annotò ora e data. «Stiamo fuggendo scrisse - ma solo tra tre settimane sapremo se la morte è salita con noi».

Venticinque anni dopo ascolto gli appelli di chi, giustamente, invita alla calma e quei momenti mi tornano alla mente. L'Italia non è lo Zaire del 1995. E il coronavirus non uccide come Ebola. Ma entrambi sono invisibili. E possono venirti incontro in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento.

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