D ue ego straripanti, due uomini delle istituzioni che scendono a lavarsi i panni in diretta televisiva. Da una parte il ministro della Giustizia, dall'altro un magistrato antimafia e oggi membro del Consiglio superiore della magistratura. Alla fine a uscirne malconcio è il primo: il Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, già traballante per la gestione dell'emergenza coronavirus. E che oggi si ritrova con l'accusa di avere stoppato la nomina del magistrato in questione, il sostituto procuratore Nino Di Matteo, alla direzione delle carceri.
Domenica sera Di Matteo racconta la cosa in tv a Non è l'Arena, il ministro alza la cornetta per ribattere a botta calda. E qui inciampa. Perché la spiegazione fornita da Bonafede fa acqua da tutte le parti. Secondo lui, il posto cui si era pensato per Di Matteo non era il Dap, la direzione delle carceri, ma un incarico ancor più prestigioso: la direzione degli Affari penali, «molto più importante, ruolo che era stato di Falcone, molto più di frontiera nella lotta alla mafia». Ma quel posto non esiste più da anni.
A spiegarlo bene ieri è il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, fino a tre anni fa membro del Csm. «Delle due l'una: o il ministro mente o non conosce l'organizzazione del suo ministero», racconta Zanettin. «La direzione degli Affari penali, incarico che il ministro Bonafede ha dichiarato di aver offerto al dottor Di Matteo, in realtà oggi si chiama Direzione generale degli Affari interni, si occupa di tante cose, compreso il processo civile, ma soprattutto non è incarico apicale, né tantomeno di frontiera nella lotta alla mafia». A riscontro delle affermazioni di Zanettin va tenuto presente come, dopo che Di Matteo aveva declinato l'offerta, per quel posto «in prima linea nella lotta alla mafia» il ministro abbia poi scelto una giudice di nome Maria Casola, le cui uniche esperienze con la toga erano come giudice del lavoro a Napoli e Roma.
A rendere incandescente lo scontro contribuisce in modo decisivo il retroscena che Di Matteo evoca dietro alla sua bocciatura come capo del Dap. Il pm racconta che Bonafede gli aveva offerto il posto, ma poi ci aveva ripensato: «Alcune informazioni - dice Di Matteo - che la polizia penitenziaria aveva trasmesso alla procura nazionale antimafia ma anche alla direzione del Dap, quindi penso fossero conosciute dal ministro, avevano descritto la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e ad altri stragisti all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap». Il ministro insomma si sarebbe fatto condizionare dalle pressioni dei mafiosi, Di Matteo non lo dice esplicitamente ma il concetto è chiaro, tant'è vero che Bonafede reagisce in modo indignato ed accorato: «Sono esterrefatto», «è un'ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda».
A rendere tutto più complicato c'è la questione delle date. Secondo quanto riporta l'Adnkronos, la prima intercettazione a raccontare i timori dei boss detenuti è del 2 giugno. Nel carcere dell'Aquila il camorrista Ferdinando Autore si sfoga con un compagno, «Zio Carmè, questi ci vogliono di nuovo chiudere come i topi. Qui c'è scritto che vogliono fare a Di Matteo capo delle carceri, chisti su pazz, amma fà ammuina». Ma quel giorno Bonafede è stato nominato ministro da appena 24 ore, e delle nomine dei capi non ha neanche iniziato a parlare, anche perché il posto al Dap non è ancora vacante.
Eppure il tam tam carcerario continua: «Appuntà - si confida con una guardia un mafioso del clan Graviano detenuto anche lui all'Aquila - ha visto che come capo del Dipartimento pensano a Di Matteo? Che vogliono fare? Stringerci ancora di più? Già siamo stretti, più di così non lo possono fare...». Il 27 giugno, Bonafede nomina al Dap Francesco Basentini: dimissionato ora in tronco per il pasticcio delle scarcerazioni.
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