L'Apple difende la privacy? Allora non usi i nostri dati

Sanno tutto di noi (col nostro consenso) ma non collaborano con l'Fbi contro i terroristi

L'Apple difende la privacy? Allora non usi i nostri dati

La nostra libertà finisce molto prima di quella di Apple. Senza dubbio. Il caso del gran rifiuto della società di Cupertino all'Fbi, cui ha negato la possibilità di decriptare l'iPhone dell'autore della strage di San Bernardino, ha scatenato un putiferio. Privacy o non privacy? Dove finisce il sacrosanto rispetto della mia vita privata e inizia l'altrettanto sacrosanta tutela della sicurezza pubblica? La mela morsicata è un colosso geniale che ha cambiato le nostre esistenze. Non è un'azienda. È uno stile di vita. Il sogno americano 2.0. Per taluni quasi una religione nel nome del fondatore Steve Jobs. Così la società di Cupertino, forte della sua leadership mondiale e dei suoi conti stratosferici, si permette di dare un clamoroso due di picche all'intelligence a stelle e strisce. Che è come dire: giù le mani dall'iPhone, noi comandiamo più di voi. Siete voi ad avere bisogno di noi e non viceversa.Non solo, Tim Cook ha rilanciato: se il governo vuole infilare il naso nei nostri sistemi operativi e nei dati dei nostri utenti, accetti un aiuto dai nostri esperti. Il ceo ha infatti proposto una «commissione» mista, creata ad hoc dal Senato americano, per sciogliere questo intricato nodo. L'erede di Jobs e i suoi soci difendono i loro clienti e, dunque, i loro interessi. Ovviamente.

Ma nella querelle tra Apple, Google e Casa Bianca c'è un ma. Ed è grosso come una casa. Gli imperatori del web 2.0, dalla mela a Facebook passando per Alphabet, sono i principali collezionisti dei fatti nostri. Ne sono i detentori. Se vogliono difendere la nostra privacy, prima di tutto ci devono difendere da loro stessi. Dal momento in cui accendi l'iPhone a quello in cui lo spegni, tu - più o meno consapevolmente - stai raccontando a queste aziende più cose su di te di quante ne sappia il tuo migliore amico. Lo smartphone (la cui traduzione letterale sarebbe «intelligentofono» e provate a dire che è un nome sbagliato...) riconosce e memorizza la nostra impronta digitale (roba da Interpol), sa alla perfezione dove siamo grazie ai servizi di geolocalizzazione, conteggia passi e gradini e quindi può azzardare previsioni sulla nostra salute. Conosce tutte le nostre abitudini: dal quotidiano che leggiamo alla musica che ci piace ascoltare. Sa tutto. Col nostro silente accordo, ovviamente. Cediamo un pezzettino della nostra libertà in cambio di un sacco di agevolazioni tecnologiche.

Ma questi colossi cosa fanno di tutte le informazioni che cediamo loro? Ovviamente ci fanno, più o meno, quello che gli pare. Google, per esempio, ci studia meticolosamente per poi rifilarci tutte le pubblicità che crede possano interessarci di più. Facciamo un esempio: se voi siete appassionati di whisky e cercate sul motore di ricerca una bottiglia che vi interessa, poco dopo vi compariranno in tutte le pagine pubblicità di bourbon e single malt. Cosa è successo in quel momento? Gli algoritmi di Google hanno immediatamente metabolizzato i vostri gusti e vi hanno offerto possibilità di acquisto. Le suorine dell'antiliberismo direbbero che vi hanno «venduto». Un'esagerazione. Hanno semplicemente trattato quei dati che noi gli abbiamo regalato.

Ma, di fronte a questo mercato di tutte le informazioni che ci riguardano, fa un po' ridere che la Apple si rifiuti di spalancare all'Fbi i segreti del telefonino di un pazzo terrorista, quando scansiona con grande meticolosità tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana. Suvvia. O forse la sicurezza nazionale vale meno di un banner pubblicitario?

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