L'armata russa avanza a cerchi concentrici: così Mosca chiude la tenaglia sul Donbass

Da Poposhna, nel Lugansk, l'esercito di Putin avanza in tre direzioni. Ucraini in crisi a Severodonetsk: "Senza armi o rinforzi siamo condannati"

L'armata russa avanza a cerchi concentrici: così Mosca chiude la tenaglia sul Donbass

Popashna (Lugansk). La vampata di fiamme e fumo accompagnata dal fragore e dai sussulti di un sisma divora il camion Ural mentre i suoi 40 tubi sputano l'ennesimo carico di morte e devastazione. Un istante dopo il fruscio sinistro di dieci razzi Grad21 solca il cielo e punta il suo obbiettivo, sei o sette chilometri più avanti. Quindici secondi ed un altro, piccolo terremoto ne annuncia l'arrivo sulle linee ucraine. «Troiske kaputt, stasera o domani quel villaggio sarà nostro», se la ride il capitano Ivan Filiponenko, portavoce delle forze indipendentiste di Lugansk, anticipando il destino del fronte nemico. Siamo sulle linee russe di Popashna, una cittadina di 19mila abitanti che il 9 maggio scorso è stata definitivamente conquistata dall'esercito di Mosca e dalle forze di Lugansk. L'epilogo è arrivato dopo due mesi di sanguinose battaglie durante le quali russi e alleati hanno faticato non poco a snidare i nemici trincerati nei palazzi e nella case del centro. Il tutto mente un fuoco incessante di artiglieria, proveniente da entrambe le parti, batteva i due fronti urbani. «È stato un inferno, qui due famiglie sono state fatte a pezzi, le altre sono scappate. Io e mio marito siamo vissuti per due mesi in cantina»,- racconta Svetlana. Lei il marito Ivan e il loro cane lupo sono rimasti gli unici inquilini di una palazzina scarnificata dalle granate. Ad oggi qui a Popashna nessuno è in grado di stillare un bilancio preciso delle vittime civili. Di certo non è rimasta molta gente. «Ormai saremo qualche centinaio non di più - racconta il marito di Svetlana - gli altri se ne sono andati a marzo». E per ora nessuno sembra disposto a tornare. Anche perché sulla città continuano a cadere le bombe i Kiev.

Il motivo è semplice. Da qui si snoda l'avanzata russa e indipendentista che punta alla conquista di un settore del Donbass a cavallo tra i territori di Lugansk e Donetsk. «Popashna qui a sud e Rubiesnoye a nord - spiega il capitano Filiponenko - sono le due ganasce della tenaglia che stritolerà gli ucraini. Da qui avanziamo in tre direzioni diverse. Puntiamo a nord verso Severodonetsk, a ovest verso Bahmut e a sud, una volta superata Troiske, marceremo su Svitlodarsk per congiungerci alle truppe della repubblica di Donetsk». La strategia russa non sembra, insomma, molto diversa da quella adottata nella Seconda Guerra mondiale quando Stalin si ritrovò a dover recuperare i territori occupati dal Terzo Reich. In pratica un avanzata a cerchi concentrici appoggiata da un intensissimo fuoco d'artiglieria che punta a chiudere le truppe nemiche in sacche sempre più ampie garantendo, al tempo stesso, una via di fuga capace di evitare battaglie all'ultimo uomo come quella andata in scena a Mariupol. In questo caso la sacca più ampia, destinata a definire le sorti di questo settore, è delimitata da Popashna a sud e da Rubyesnoye a nord. La strategia, diversissima e lentissima rispetto a quelle adottate da un Occidente costretto a far i conti con un'opinione pubblica ormai allergica ai conflitti prolungati, ha le sue buone ragioni.

«A differenza di quanto sostengono i vostri esperti militari l'esercito russo e il nostro - sostiene il capitano Filiponenko - non sono né stanchi, né demoralizzati, né a corto di mezzi. Potremmo avanzare molto più in fretta, ma questo causerebbe perdite assai ingenti tra la popolazione - in gran parte russa - di questi territori, e tra i nostri soldati. Inoltre un'avanzata più veloce implicherebbe inevitabilmente distruzioni ben più consistenti di città e infrastrutture che appartengono alle nostre repubbliche e dovremmo, alla fine, ricostruire a nostre spese». In effetti a 86 giorni dall'inizio della guerra la lenta, ma sistematica offensiva del Donbass - garantita da un'opinione pubblica in parte silenziosa, in parte consenziente - sembra dare i suoi frutti.

Ieri il comandante di un plotone della 115ma brigata ucraina schierata a Severodonetsk si è appellato a Zelensky dichiarando di non poter più difendere la città.

«Non ci avete mandato né rinforzi, né armi pesanti, in questo modo - ha detto - siamo stati condannati a morte sicura».

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